Sono un migliaio i discendenti dei coloni bavaresi. Studiano la nostra lingua ma parlano ancora la loro che Mussolini vietò. «Nel 1939 si impose una scelta: restare e italianizzarsi o lasciare la propria terra per trasferirsi nel Reich. La valle si svuotò» (Foto di Alessandro Penso per L’Espresso)

Tra le coste di larici e abeti si snodano le strade strette che hanno cambiato questo territorio. Lunghi tronchi sono stesi ai bordi, ogni tanto un capriolo scappa nel folto del bosco. Sui cartelli le scritte sono in due lingue. Un pulmino gira per la manciata di paesi della valle, raggiunge i masi sparsi per prendere i bambini e li accompagna alla scuola primaria di Fierozzo/Vlarotz dove in trenta compongono le cinque classi. Dalla prima studiano l’italiano, il tedesco e il mòcheno, in aule circondate da vette che superano i duemila metri. La lingua neutra in cui si insegnano le altre materie, e quella in cui le maestre richiamano i bambini a ricreazione, è l’italiano. Dice una di loro, Cristiana Ploner: «Puntiamo molto sulla consapevolezza dell’identità. Non insegniamo che noi mòcheni abbiamo qualcosa in più o in meno, ma diciamo: siamo questo». Quando chiedi ai bambini se gli piace anche il mare, rispondono che dopo una settimana di vacanza gli mancano le montagne.


Un tempo in Trentino si diceva «sei mòcheno» per dire: sei fuori dal mondo. Le cose sono piuttosto cambiate. La comunità mòchena della valle del Fèrsina, una ventina di chilometri a est di Trento, è un’isola linguistica che non arriva a mille residenti e che in pochi fuori dal Trentino conoscono. «I primi coloni s’insediarono tra il XIII e il XIV secolo», spiega Leo Toller, operatore culturale dell’Istituto mòcheno a Palù del Fèrsina/Palai en Bersntol. «Venivano dalla Baviera in cerca di nuove terre e di un buon clima. Siamo sempre stati un ponte tra due culture». Presto si avviò un’attività mineraria importante, intorno alla locale miniera dell’Erdemolo, che si affiancò ad agricoltura e allevamento e proseguì fino agli anni Settanta del Novecento.


«Il periodo peggiore della nostra storia è stato il fascismo», prosegue Toller. I tentativi di italianizzazione forzata furono brutali. Si parlava mòcheno clandestinamente, si verificarono episodi di repressione poliziesca. L’esistenza di questa zona, appena ottenuta dall’Italia ma germanofona, creava un imbarazzo nell’alleanza tra fascismo e nazismo. Si strinse così l’Accordo delle opzioni, nel 1939, che in valle del Fèrsina come in Alto Adige impose una scelta: restare e italianizzarsi o lasciare la propria terra per trasferirsi nel Reich. La valle si svuotò, centinaia di mòcheni partirono per il Protettorato di Boemia e Moravia. Secondo Toller, «le Opzioni sono state un imbroglio tale che la gente, da allora, ha smesso di parlare volentieri di politica». Pure, nella mòchena Frassilongo/Garait è nato uno dei leader storici dell’autonomismo trentino come Enrico Pruner. E l’estensione di tutela e valorizzazione culturale, formalizzata da una riforma statutaria nel 2001 verso le minoranze mòchene, cimbre e ladine, viene salutata oggi come un riconoscimento politico decisivo.


L’identità ruota intorno alla lingua e alle tradizioni. Si parla una derivazione del dialetto bavarese, che negli anni Settanta iniziò a essere studiata dal linguista Anthony Rowley. «A lui si devono la prima grammatica e il primo vocabolario della lingua mòchena», dice Toller. «Ha codificato in forma scritta una lingua che era sempre stata trasmessa solo oralmente». La primissima trascrizione però sarebbe opera di un sacerdote locale negli anni Sessanta, secondo don Daniele Laghi, il parroco della valle. Durante la sua predica, sotto l’abside col buon Pastore tra le pecore, la chiesa di Fierozzo è piena di giovani e molti fedeli devono restare in piedi sul sagrato o seduti sul muretto del cimitero. «Abbiamo la più alta partecipazione del Trentino», s’inorgoglisce lui. Dice messa in italiano, anche perché non conosce il mòcheno («Quando mi assegnarono qui, neanche sapevo dove fosse la valle»), ma è la sua sagrestia a custodire la Stella – una sorta di girandola decorata che simbolicamente porta luce e circolarità a ogni nuovo anno. È il rituale più sentito dalla comunità: tra la notte di San Silvestro e l’Epifania, la Stella viene portata di casa in casa e fatta ruotare, mentre un gruppo di ragazzi e ragazze intona canti. Sono i giovani detti «coscritti», che compiono i diciott’anni nel corso dell’anno, e ricevono grandi onori dalla comunità. La coscrizione è un altro elemento identitario forte: chiunque si incontri, testimonia l’emozione di indossare i suoi simboli e condurre la Stella. Si intreccia al servizio militare, per il quale si partiva poco dopo: anche per questo è storicamente maschile, benché sia stata ormai estesa alle donne. E si intreccia alla componente religiosa: i coscritti hanno un banco riservato in chiesa.


Quest’anno è il turno di Nicola Marchel, classe 2003. L’orgoglio per la sua condizione che lo mette al centro della scena comunitaria è più forte della timidezza. Certo, gli dispiace che il grande passo sia così limitato dalla pandemia: non ha potuto compiere il rito della Stella, né partecipare alla festa di Capodanno – quando i coscritti dell’anno che finisce si tolgono il cappello alla mezzanotte, mentre lo indossano i coscritti dell’anno nuovo. Sono tutti amici, gli stessi con cui Nicola giocava, nell’infanzia ormai alle spalle, «a fare i boscaioli o la guerra coi fucili di legno». Il cappello detto kronz è il segno visibile dello status acquisito, si indossa in pubblico dal primo gennaio alla Quaresima e per l’ultima volta il giorno di Pasqua. Si va fino in Alto Adige per comprarlo, lo si decora con perline, vetri e fiori secchi («Per me l’ha fatto una signora del paese») e con una piuma di gallo forcello. Questa viene chiesta in dono ai cacciatori ed è l’elemento cruciale, Nicola ne ha ricevuta una considerata particolarmente bella da chi se ne intende. Ora frequenta le superiori a Trento, i suoi compagni sono cittadini e hanno abitudini diverse: «Non conoscono i boschi, non sanno come si comportano gli animali. Vorrebbero proteggere l’ambiente ma non lo conoscono».

Un rapporto speciale tra mòcheni e natura lo rivendica anche Italo Paoli. «A volte, quelli che esaltano la sostenibilità, si presentano qua con tre automobili per cinque persone...». Lui con la famiglia gestisce un agriturismo e un’azienda agricola nella frazione di Roveda, dove alleva razze locali come le mucche “grigio alpine” e le capre pezzate mòchene. «Di solito qui vengono clienti in cerca di silenzio e pace, le nostre caratteristiche, a cui siamo legati. Sarebbe sbagliato trasformarsi in quello che non siamo per inseguire il turismo». Italo in vacanza lontano da qui non ci è mai andato ma i rapporti fuori dalla comunità li ha stretti comunque. Tanto che la relazione con la sua compagna è quella che da queste parti si definisce un “matrimonio misto”, perché lei non è mòchena. E non parla la lingua, che a scuola del figlio non si studia. «Oggi tra paesani si è troppo imparentati, bisogna uscire», si giustifica Italo. Un tempo gli scambi con l’esterno li avevano soltanto i krumer, gli ambulanti mòcheni che percorrevano l’impero d’Austria-Ungheria per vendere stoffe, ninnoli e immagini sacre dipinte su vetro. Dopo la prima guerra mondiale – quando il territorio passò all’Italia – i krumer si limitarono a partire per girare l’Alto Adige.


Sono state le strade, completate negli anni Settanta, a far cambiare tutto. Lo conferma Helma Niederstätter – fonte preziosa di storia locale – che da ragazzina, non potendo coprire agevolmente i 17 chilometri per Pergine (il grande centro più vicino, in Valsugana), frequentò tre volte la quinta elementare a Palù. Solo quando le corse della corriera entrarono in funzione poté iniziare le medie, con 2 anni di ritardo.


Oggi la valle è ancora un luogo in disparte ma il vero isolamento appartiene al passato. E si aprono sfide nuove: «Ho sentito dire più d’una volta da queste parti che sarebbe meglio studiare l’inglese, piuttosto che il mòcheno», spiega don Daniele. Gli abitanti perlopiù vivono lavorando altrove, da pendolari. In un territorio orientato per secoli all’agricoltura e dove la vocazione mineraria è diventata un ricordo, l’economia locale risulta debole e l’azienda più strutturata della valle (una cooperativa che produce piccoli frutti) in realtà non è di qui. Chi ha un’attività a Fierozzo è l’artigiano Andrea Oberosler, per ventun anni operaio nelle cave di porfido di una valle vicina. Nel suo laboratorio lavora il legno, con cui costruisce soprattutto piccoli oggetti a forma di animali. E li vende su Amazon. Il contatto tra i mòcheni e le espressioni del capitalismo globale fa sorridere la direttrice del coro, Nadia Moltrer, mentre spiega che in famiglia vorrebbero ordinare la cena con le piattaforme di consegna a domicilio ma il cibo arriverebbe freddo.

Spesso si parla in mòcheno solo quando non si vuole essere compresi da gente di fuori, come un codice. «Per conservare la lingua servono tre pilastri: la famiglia, la scuola e la compagnia», sostiene Toller. È frequente che in famiglia si parli in dialetto trentino ed è sempre più normale per i giovani avere relazioni esterne alla comunità. Dopo la primaria di Fierozzo, a scuola non si studia la lingua perché le medie più vicine sono a Pergine – fuori dal territorio. Ogni settimana, però, sul giornale l’Adige c’è uno spazio in mòcheno e il canale delle minoranze linguistiche trentine Tml dedica un telegiornale in lingua alle notizie locali. Tra i residenti fuori dalla valle, si dichiarano mòchene circa 800 persone (secondo il censimento 2011 della Provincia).
«Un tempo essere mòcheni era considerato vergognoso ma per me è un orgoglio: devono invidiarmi», dice Giulia Iobstraibizer. Frequenta l’ultimo anno delle superiori e non ha ancora deciso se fare l’università: «Una parte di me vuole andarsene ma una parte vuole restare. Magari diventare maestra e insegnare il mòcheno. Andar via sarebbe un rischio: ho paura che non vorrei più tornare. È che mi sento in obbligo verso la famiglia: noi giovani abbiamo il dovere di mantenere vive le tradizioni».