Nel giorno in cui si celebra la lotta contro l’impunità la lettera aperta della compagana del reporter ucciso e del Segretario generale di Reporters sans frontières: «Dovete pretendere dall’Arabia Saudita un impegno chiaro per la difesa della libertà di stampa, iniziando con la liberazione dei 32 giornalisti che si trovano in carcere»

Ogni 2 novembre, grazie ad una risoluzione adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, si celebra la lotta contro l’impunità che purtroppo caratterizza, ancora oggi, le violenze perpetrate contro i professionisti dell’informazione.
Una mobilitazione corale, a livello internazionale, è ancora necessaria visto che più del 90% dei crimini commessi contro i giornalisti restano impuniti.

Per sottolineare l’imperiosa necessità di questa lotta, basta oggi rievocare quegli omicidi che, per via delle loro specificità, autori e vittime, presentano una rilevanza del tutto particolare.

L’uccisione di Jamal Khashoggi, nella sede del consolato d’Arabia Saudita a Istanbul, rientra, ad esempio, in una categoria di omicidi che credevamo appartenere al passato: il “crimine di Stato”. Commesso da alcuni sicari del regime saudita, e ordinato da alti rappresentanti del Paese, in condizioni che la procedura investigativa ufficiale avviata da Riad non permette d’identificare chiaramente, questo crimine getta una tragica ombra su tutto il regime.

Non possiamo, pertanto, accontentarci del fatto che il principe ereditario Mohammed Bin Salman (MBS) abbia, tardivamente, ammesso la sua “responsabilità” in un’uccisione commessa “sotto la sua autorità”.

Un crimine di Stato implica delle vere scuse pubbliche, ricorda Agnès Callamard, la relatrice speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie.

Ora, queste scuse, le stiamo ancora aspettando. Esattamente come i familiari e gli amici di Jamal Khashoggi continuano ad aspettare i suoi resti, e che giustizia venga fatta.

Il processo, che si sta svolgendo a porte chiuse, non rispetta alcuno standard internazionale della giustizia. Cinque presunti autori dell’uccisione potrebbero essere condannati a morte. Non ci rallegriamo certamente per la severità di questa possibile pena, anzi deploriamo il fatto che, con questa decisione, la giustizia saudita potrebbe condannare per sempre al silenzio chi conosce alcuni dei lati segreti di questa operazione criminale.

Dall’uccisione di Khashoggi ad oggi, le autorità saudite hanno continuato a reprimere i giornalisti esercitando su di loro una violenza inaudita. Almeno 32 giornalisti, professionisti o meno, sono oggi detenuti nelle carceri del paese. Da quando MBS ha preso in mano le redini del potere, il numero di giornalisti detenuti è raddoppiato. E la paura dei professionisti dell’informazione sauditi continua a crescere, non solo nella penisola araba ma ovunque questi si trovino nel mondo.

Ed è in questo contesto che Riad sta organizzando una conferenza sui media, che si terrà all’inizio del mese di dicembre. Giornalisti stranieri ed esperti dell’informazione sono stati invitati al “Saudi Media Forum” per parlare della libertà e dell’indipendenza della stampa. Sembra un tragico scherzo ma è purtroppo la realtà.

Nonostante lo sconcerto espresso a livello internazionale, dopo l’uccisione di Jamal Khashoggi, nonostante le sanzioni imposte da Washington, Ottawa, Parigi e Berlino contro un numero ristretto di persone sospettate di essere coinvolte nella morte del giornalista, l’Arabia Saudita non ha minimamente allentato la sua politica repressiva nei confronti della stampa.

La Germania è stata l’unica nazione ad imporre un embargo sulla vendita di armi a Riad. Gli Stati Uniti, attraverso il vice-presidente Mike Pence, hanno lasciato intendere che la liberazione del blogger Raif Badawi, condannato a 10 anni di carcere e 1000 colpi di frusta, poteva aiutare le autorità del Regno a salvaguardare la propria reputazione a livello internazionale.
Ma, solo pochi mesi fa, il presidente americano Donald Trump ha insistito affinché Mohammed Bin Salman fosse vicino a lui, in prima fila, nella “foto di famiglia” dei leader delle venti grandi potenze mondiali, allora riuniti ad Osaka, in Giappone, per il G20.

E sono ormai due anni che i figli della giornalista Daphne Caruana Galizia a Malta, la sorella di Gauri Lankesh in India e i familiari di Javier Valdez e di Miroslava Breach in Messico lottano, ogni giorno, per far chiarezza sulla morte dei loro cari. In Burundi e in Ucraina, tre anni fa, sono stati gli stessi colleghi di Jean Bigirimana e di Pavel Sheremet a supplire alle carenze delle indagini della polizia per cercare di capire chi fece sparire nel nulla il primo e chi collocò un ordigno esplosivo nell’auto del secondo.

Questa lista di crimini irrisolti si allunga, purtroppo, ogni giorno. In Messico, dal 2000, almeno 150 giornalisti hanno perso la vita per via dei narcotrafficanti e del ciclo infernale di violenze perpetrate ormai nella più assoluta impunità.

Davanti a questi scenari, i dirigenti del G20 hanno il dovere di agire, se vogliono restare ancorati al principio di responsabilità. Nessuna grande sfida mondiale può essere affrontata efficacemente senza la forza di un giornalismo libero, indipendente, affidabile, plurale. Anche per questo motivo, i capi di Stato e di governo non devono più assistere passivamente all’uccisione di giornalisti nel mondo.

L’Arabia Saudita si appresta ad assumere la presidenza del G20 per un anno. Accettare che questa presidenza sia come tutte le altre sarebbe offrire al Paese un «permesso di uccidere», seppellendo così definitivamente la verità e la forza del giornalismo libero.

Chiediamo pertanto al G20 di non sporcare la memoria di Jamal Khashoggi e di pretendere dall’Arabia Saudita un impegno chiaro per la difesa della libertà di stampa, iniziando con la liberazione dei 32 giornalisti che si trovano in carcere. Giornalisti che devono ritrovare la piena libertà perché, come spiegava Khashoggi nel suo ultimo editoriale, “ciò di cui il mondo arabo ha più bisogno è la libertà di espressione”. Una verità che vale per il mondo intero.

*Christophe Deloire è il Segretario generale di Reporters sans frontières (RSF)
Hatice Cengiz era la fidanzata di Jamal Khashoggi