In passato i partiti si sono dati regole spesso inefficaci. Oppure da loro stessi violate. E' ora che si impegnino ?a inserire nelle liste solo persone di cui possono assicurare l’indipendenza ?e la moralità pubblica. Ma avranno il coraggio di rinunciare ai voti inquinati?

Il turbinare di commissioni garanti è già cominciato, ci si scanna nella penombra sulle regole delle candidature, si esaminano fedine e soprattutto «deroghe» (parolina magica di questa fase), si vaglia l’eventuale soccorso alternativo di mogli, mariti, fratelli, cognati; condannati e immacolati inneggiano all’Onestà (ta-ta). Ma alcuni capi di partito faticano a esporsi in prima persona nel sottoscrivere l’appello dell’Espresso: persino chi appartiene allo stesso partito di Minniti, il ministro che ha chiamato i partiti a un patto per il no al voto mafioso. Tra i leader, c’è chi si tiene sul vago perché le regole non sono ancora ufficiali, chi precisa di non occuparsi delle liste, ma soprattutto c’è chi (Berlusconi) si trincera dietro un vago «vedremo più avanti», o chi (Renzi) demanda al proprio vicesegretario l’onere della risposta.

Insomma tutto fa pensare che le prossime elezioni porteranno nuovi orizzonti nella rocambolesca e non di rado contraddittoria partita per le liste pulite. Per quanto sia difficile doppiare il record europeo, forse mondiale, raggiunto in novembre da Cateno De Luca detto Scateno. Messinese, leader di Sicilia Vera, già sindaco a Fiumedinisi e deputato Ars, candidato nell’Udc alle ultime regionali, in autunno fece l’intera campagna elettorale inviando orgoglioso a tutti il proprio santino insieme con una bella riproduzione del suo - immacolato - casellario giudiziario. Fu arrestato 48 ore dopo essere stato eletto. Ai domiciliari per evasione fiscale, con l’intero suo pacchetto di cinquemila voti, proprio mentre l’Udc rivendicava la propria «massima diligenza nella formazione delle liste elettorali» e la presidente dell’Antimafia Rosy Bindi sospirava (eufemismo) per l’insufficienza «degli strumenti di cui disponiamo» .

Certo, perché poi tra regole e vertici, i filtri hanno spesso dei risultati paradossali. Basti pensare che per smania elettorale di mostrare il candore del candidato, proprio Berlusconi finì per proporre - da premier, in piene Regionali 2010 - quelle norme anticorruzione che alla fine del 2013, sotto il nome di legge Severino, avrebbero finito per segnare la sua decadenza da senatore nonché uno dei più clamorosi autogol della storia repubblicana.
Adesso, in effetti, il caro Silvio ci va più cauto. L’ultima volta al teatro Politeama di Palermo smontò così la causa: «Siamo in democrazia. Se non vi piacciono, non li votate», mandando in visibilio i cosiddetti impresentabili seduti in prima fila.

C’erano fra gli altri Antonio D’Alì, il senatore rieletto con Berlusconi quando già era sotto processo per associazione mafiosa (siamo alla Cassazione), sua moglie che dovrebbe essere candidata a questo giro con Forza Italia, nonché il giovane Luigi Genovese, figlio di Francantonio, l’ex parlamentare già portatore di voti nel Pd, poi disconosciuto dai dem e condannato in primo grado a 11 anni , infine passato in Forza Italia, insieme con il cognato Franco Rinaldi, che dovrebbe finire anche lui in lista. «I Genovese hanno fatto solo del bene a Messina e la città ce lo ha riconosciuto», rimarcò pochi giorni dopo Luigi, in una intervista a Repubblica, dopo aver preso quasi 18 mila preferenze e prima che arrivasse anche per lui la notizia che era sotto indagine per riciclaggio: «Ma quale impresentabile, mio padre è solo al primo grado», fece in tempo a dire, chiarendo la filosofia.

Giusto. Perché in questi fatti tutto è relativo. Non bisogna fissarsi. Come fanno notare i radicali, è capitato alle comunali di Roma che il Pd non abbia ricandidato la consigliera municipale Nathalie Naim perché era stata denunciata per diffamazione dai bancarellari e abusivi della Capitale. E adesso, pure il giustizialismo grillino - faro di questi anni, nel suo genere - traballa tra l’aggiornamento garantista del nuovo statuto e pure, alla fine, le dichiarazioni con le quali Luigi Di Maio ha aderito all’appello dell’Espresso chiarendo che «non c’è spazio nel Movimento per chi riceve un avviso di garanzia e viene indagato se i fatti sono gravi ed evidenti», parole che rendono difficile la collocazione di casi come quello di Virginia Raggi e Filippo Nogarin.

Lo stesso Cateno De Luca, di cui si diceva, dopo 12 giorni di domiciliari s’è visto d’altra parte annullare tutto, e ha potuto chiudere l’anno suonando (letteralmente) la zampogna all’Ars non solo da deputato, ma da presidente del gruppo misto, cioè dopo aver lasciato l’Udc. Anche lui in fondo può dire quel che ha detto di sé Amedeo Laboccetta, ex deputato del Pdl, primo dei non eletti in Campania nel 2013, brevemente arrestato a dicembre 2016 quando era ancora fuori dal Parlamento, e infine entrato alla Camera nel giugno 2017: «Ho sempre praticato la coerenza. Nella scorsa legislatura ero nel gruppo del Pdl, mi sono ricandidato nello stesso gruppo nel 2013, quindi resto dove ero». A nessuno sembra si sia mai mosso, in effetti.

Questione di prospettive. Se nonostante tutto l’ex procuratore nazionale Antimafia Franco Roberti ha rilevato che le scorse liste per le regionali siciliane sono state «più pulite che in passato», al livello nazionale già nella scorsa legislatura, vi è da dire, il gruppo degli impresentabili fu falcidiato non poco. Preda come era non solo del vento grillino in generale. Ma pure, in particolare, dello psichedelico proposito di Angelino Alfano, allora Segretario Politico del Pdl, di presentare appunto liste pulite, lui convinto secondo una memorabile affermazione che «la discesa in campo di Berlusconi ha posto l’onestà come precondizione dell’attività politica».

Di conseguenza, vi furono allora furiose riunioni addirittura fino alle quattro di notte, Marcello Dell’Utri non fu ricandidato (fu allora che Alfano si beccò del «senza quid», quando in effetti si era in presenza dell’unica eccezione alla regola), e così pure Nicola Cosentino o Claudio Scajola. Ma invece entrò grazie alle deroghe alfaniane uno come Luigi Cesaro, nonostante fosse all’epoca indagato dalla Dda; e così altrettanto Roberto Formigoni, nonostante gli scandali, le vacanze con il faccendiere Daccò, i fondi Maugeri e le altre simpatiche occorrenze che l’avevano costretto a lasciare il Pirellone; o ancora il re della sanità del Lazio ed editore Antonio Angelucci, il più ricco del Senato grazie alle sue 25 cliniche, indagato varie volte tra cui l’ultima per traffico di influenze, la penultima per falso e truffa nei finanziamenti all’editoria (bazzecole).

Non poteva bastare e non bastò, per una legislatura che infatti è iniziata anche per il Pd a suon di commissioni di garanzia,addirittura l’ideazione di un «modulo anti-impresentabili» (fu proposta da Luigi Berlinguer) da distribuire in automatico, con Pietro Grasso all’epoca «a casa» tra i dem pronto a salutare il «fresco profumo di liste presentabili»; ma che presto perse di gradevolezza olfattiva con la candidatura e poi la vittoria di Vincenzo De Luca in Campania, accolte entrambe con imbarazzo da un bel pezzo dell’allora Pd perché all’epoca l’ex sindaco di Salerno figurava come condannato in primo grado per abuso d’ufficio (ma poi è stato assolto). Ci fu, per chi lo ricorda, uno scontro leggendario con la Bindi, colpevole per l’intera Antimafia di averlo inserito a 48 ore dal voto nella lista nera degli «invotabili». Intervenne pure Renato Schifani, persino lui, indignato: «Mi corre l’obbligo di ricordare che per molto meno sono state chieste dimissioni di ministri mai indagati e di sottosegretari mai interessati da avvisi di garanzia», furono le immortali parole.

Uno spirito perso via via nei rivoli di un film che è diventato tutt’altro. Con Denis Verdini che uscì da Forza Italia, per cominciare con la sua Ala l’appoggio più o meno esterno (ma sostanziale) alla maggioranza del Pd renziano, otto mesi prima essere condannato a due anni per concorso in corruzione per gli appalti Scuola dei Marescialli di Firenze, e venti mesi prima di essere condannato in primo grado a nove anni per il fallimento dell’ex Credito cooperativo fiorentino. In un Parlamento che stantuffava nello stare dietro alle vicende giudiziarie dei propri membri. Unico nel suo genere il caso dell’ex ministro veneto Giancarlo Galan, del quale la Camera autorizzò l’arresto già nell’estate 2014 per il coinvolgimento nell’inchiesta sugli appalti per il Mose (l’ex governatore ha poi patteggiato), ma poi ci ha messo stancamente altri due anni a dichiararne la decadenza in base alla legge Severino. Lasciando così la commissione Cultura sguarnita di presidente (lo era appunto il recluso Galan) per quasi mezza legislatura. Cose che capitano.

Per le prossime elezioni, partiti ?e movimenti devono assumersi in pieno la loro responsabilità politica nella formazione delle liste.

Rivolgiamo un appello a segretari e leader perché selezionino le persone da candidare guardando soprattutto alle loro qualità personali e morali , senza ripararsi dietro le inchieste ?e le sentenze della magistratura.
Non basta solo il codice etico di autoregolamentazione varato dalla Commissione antimafia - peraltro non vincolante - perché le regole non saranno mai sufficienti se non si punta, sostanzialmente, a far sì che la politica sia un luogo nel quale ?si pratica anche un’etica di trasparenza e legalità .

Il nuovo sistema elettorale pone ?in capo ai leader politici una responsabilità in più nella scelta ?dei candidati, per i collegi territoriali, perché non si potrà attribuire ?al singolo elettore la colpa di aver scelto un nome piuttosto che ?un altro: a chi vota viene chiesto ?di mettere soltanto una croce ?su una persona già scelta.

Il leader politico conosce il territorio ed è capace di distinguere realtà pulite e bacini di voti inquinati. ?In questo senso ne sa anche più del magistrato: conoscenze e informazioni che circolano nella vita interna di partiti e movimenti sono più ampie e pregnanti di quelle a cui può arrivare chi indaga. E rifugiarsi nell’idea che semmai, dopo, ? ci penseranno i giudici significa tornare indietro di decenni quando questo ritornello serviva a coprire un rapporto collusivo tra mafia e politica i cui esiti disastrosi sono noti.

Basta citare per tutti il nome di Salvo Lima, a Palermo mai indagato per mafia, ?e ricordare il ruolo che ha svolto in Sicilia e a livello nazionale.

I partiti si devono quindi impegnare ?a inserire nelle liste per il Senato ?e la Camera, le assemblee regionali ?e i consigli provinciali, comunali ?e circoscrizionali, solo persone di cui possono assicurare l’ indipendenza ? e la moralità pubblica.

È questo il modo giusto che ha ?la politica per legittimarsi. Se i partiti si rendono autonomi dagli esiti giudiziari, tutelano se stessi e i propri candidati. Ma i leader hanno il coraggio di rinunciare ai voti inquinati?