Un popolo che da secoli vuole diventare una nazione. E ora vota per staccarsi dall’Iraq. Ma il suo cammino è ancora lungo e in salita (Foto Emilien Urbano)

L’Angelo-pavone della religione yazida, Melek Taus, conversa con Gesù: «Hai creato il tuo popolo dandogli l’opportunità di essere intelligente, grazie al dono della giustizia. È per questo che i Paesi cristiani sono anche potenze che eccellono nell’industria. Ma questo Islam è alle porte. Se non agirete secondo giustizia, vi annienterà. Il mondo è una pentola bollente». Il vecchio parla ai visitatori all’ombra del patio con vista sulle tende dei 10 mila sfollati nell’estremo nord-ovest del Kurdistan iracheno. Saranno i 43 gradi di fine estate o il vento che spazza la terra, ma a quella conversazione tra il Cristo e l’Angelo il vecchio sembra aver assistito di persona. Con la comunità divisa in partiti e milizie, con il bisogno di decidere chi ha tradito chi, con l’incertezza su chi veglierà Sinjar e Ninive e sull’identità di turcomanni, cristiani, shabak, sciiti e sunniti, mai come adesso su questa montagna al confine con la Siria e in tutto il Kurdistan si avverte il bisogno di ascoltare parabole semplici: «Agire secondo giustizia. Evitare di fare macerie è più facile che ricostruirle». Lo sanno ad esempio gli yazidi, per i quali ormai tutti gli arabi sono assassini o oppressori. Ma lo sanno anche i curdi, popolo di partigiani vissuto tra persecuzioni, massacri, lotte e orgoglio. Ed è questa la vera sfida del Kurdistan quando il 25 settembre ha votato per l’indipendenza da Baghdad: far nascere una nazione che riesca a essere democratica e multietnica.

Per scendere da Shingal e tornare a Dahuk si deve fare il giro largo sul confine siriano. La strada principale, anche con Mosul libera, è interdetta. A vederlo sulla cartina il Califfato è proprio lì sotto, un serpente con la coda a Kirkuk e la testa tra Tal Afar e l’area di Baaji, verso la Siria. È moribondo. Le spire sono appena di là della terra curda, che ha accolto 1,4 milioni di sfollati di tutti i credo e 233 mila profughi siriani, diventando quasi un modello di società pluralista.

Gli scarponi dei peshmerga sul terreno sono stati la prima vera sconfitta per Al Baghdadi, con 30 mila chilometri quadrati liberati e un tributo di 1.745 morti e 10 mila feriti. L’auto-determinazione politica della “curdità” e delle sue zone di influenza è il conto che il presidente e leader del Pdk (Partito Democratico del Kurdistan), Masoud Barzani, figlio di Mustafa (eroe nazionale), padre di Masur (capo della sicurezza) e zio di Nechirvan (primo ministro) presenta al governo di Baghdad. Che credeva di disinnescare le storiche velleità nazionaliste curde autorizzando il controllo dei territori riconquistati dai peshmerga, laddove si era ritirato invece che combattere: Shingal, Makhmur, Khanaqin, Khurmatu e Kirkuk. Che ha bloccato il versamento della quota del 14 per cento dei ricavi del petrolio nazionale assegnata ai curdi dopo che Erbil ha provato a essere autonoma vendendo il proprio alla Turchia e a monetizzare i suoi 5,7 milioni di metri cubi di gas naturale. Che ha inchiodato, dopo il boom economico, anche i lavori pubblici, il cui blocco (unito al calo dei prezzi del greggio, ai profughi, all’Isis, alla corruzione e alle divisioni tribali) ha costretto a riforme con tagli di salari e conseguenti proteste violente a fronte dei 25 miliardi di dollari di debito.

Al netto di una Siria in disfacimento e degli Usa che raccomandano «un Iraq unificato, stabile e federale», intorno c’è la Turchia, che ha in Barzani uno dei pochi amici. Ma l’odio turco per il Pkk e i bombardamenti sui monti Qandil e a Sinjar non si conciliano con certi buoni rapporti economici e l’idea di un protettorato gestibile. Contrario al referendum l’Iran, che flirta con la sciita Baghdad e nel Paese ha infiltrato milizie, come Hashd al Shaabi, che già si scontrano con i peshmerga.

«Indebolirete l’Iraq, ci hanno detto. Ma anche all’inizio della storia moderna del Paese noi siamo stati un equilibrio tra sunniti e sciiti. Qui la tolleranza è una realtà», spiega Jaffar Iminki, Pdk, vice presidente del parlamento della capitale Erbil, regno dei Barzani e filo turca. Parla piano e dice che nei sondaggi il “sì” è al 95 per cento.

Il comitato elettorale ha anche deciso la data delle elezioni parlamentari: il 6 novembre. «Il Paese non è affatto nelle mani del premier Haider al Abadi. Gli chiediamo noi per primi il perché di questo disastro. Quando l’Iraq è rinato avevamo fatto un accordo di gestione democratica. Di questo non c’è traccia». Ma il palazzo è silenzioso e non arriva neanche l’eco della città. Il parlamento non si riunisce dall’ottobre 2015, quando la cacciata del suo presidente Yousif Mohammed da parte di alcune milizie ritenute vicine al Pdk e le accuse al suo partito, il Gorran, di aver alimentato proteste violente a Suleumanyya ha rotto i rapporti tra le due principali forze di governo. La città a sud è l’altro lato del regno: una milizia peshmerga diversa, altri servizi segreti, un altro clan, quello dei Talabani del Puk (Unione Patriottica del Kurdistan). E l’influenza iraniana.

«Il referendum è un diversivo, serve a tenere la gente occupata. Adesso stiamo combattendo l’Isis, dicono loro. Quando questo non ci sarà più, finirà l’alibi», sostiene definendosi “realista” anti-propaganda Hama Tofi Rahid, del direttivo del Gorran, “Cambiamento”, nato nel 2009 da una costola del Puk. Oltre il salotto dal quale parla c’è il giardino con la tomba di Mustafa Nawshirwan, il leader scomparso a maggio. I suoi due nipoti, trentenni con studi a Londra, scorrono numeri sul telefonino nella stanza accanto. C’è da riorganizzare il partito, riattivare il parlamento per votare un mandato sul referendum, come vogliono anche Puk e Komal (Gruppo Islamico) e gestire la legittimità dei Barzani al potere: l’incarico, terminato nel 2013, è stato esteso prima con un atto parlamentare e poi con una sentenza. Poco lontano da qui c’è la villa blindata dei Talabani. Hero Ibrahim Ahmed, moglie di Jalal, il primo presidente curdo dell’Iraq dimessosi nel 2014 e colpito un anno fa da un ictus, impera silenziosa. L’influenza del Puk è estesa a Kirkuk, città curda ma anche arabo-turcomanna. «Ho la sensazione che i politici siano molto distanti dalla realtà», spiega Lahur Talabani, capo dei servizi segreti del Puk. Sostiene che manchi lui, lo zio ed ex presidente.

«L’Iran ha già provato ad affacciarsi nella parte alta di Erbil per andare in Siria; non lo abbiamo permesso», dice Iminki. Parla delle Unità di Mobilitazione popolare, organizzazione para-militare irachena composta da decine di milizie islamiche sciite, ma anche sunnite, cristiane e yazide, ritenute vicine all’Iran e invise alla Turchia. Sono state coinvolte nelle operazioni anti-Isis ad Anbar, Tikrit, Falluja, Mosul. Ma le torture e le uccisioni tra la popolazione civile sunnita hanno mosso Amnesty International. «Temiamo una guerra tra peshmerga e soldati sciiti. I nostri militari sono riusciti a prendere molte posizioni dell’Isis anche arabe, non solo curde. In quelle zone stanno scoppiando conflitti, specie dove ci sono cittadini di più di una etnia», spiega Rahid. Come a Shingal. La parte a sud è stata liberata anche dalla Pmu, quella a nord dal Pkk. I secondi hanno addestrato gli yazidi e creato la Ybs, le Unità di Protezione di Shingal ed entrambe si oppongono alla presenza degli sciiti e ai loro reclutamenti nell’area. A marzo invece ci sono stati scontri tra Pkk-Ybs e Rojava peshmerga, curdi siriani fuggiti con la guerra civile e mai rientrati in Siria, ora agli ordini di Barzani e alleati dei peshmerga Pdk. Per il presidente tra queste montagne albergano i nemici di casa, compresi i curdi del Rojava. Per gli yazidi, le origini e i dubbi sulla propria libertà. Barzani vorrebbe il controllo dell’area e invita Pkk e sciiti a lasciarla. I secondi vogliono vivere in sicurezza. «Qui tutti hanno avuto un ruolo nella liberazione dall’Isis e siamo grati a tutti.

Ma la verità è che nessun yazida in nessun partito può decidere nulla: ecco perché ci troviamo in grande pericolo. Chiunque si scontra qui, prende noi come pretesto», dice un membro yazida del Pkk sulla montagna. Il puzzle è complicato. E i pezzi non combaciano mai. Non basterà un referendum a chiudere il disegno.