La sfida di Kim fa paura. E negli Stati Uniti cambia la vita delle persone. Boom dei rifugi da giardino. Soprattutto negli stati rurali, quelli meno esposti ai pericoli. E nelle città si riattivano i bunker nelle cantine

«Sì, degli affari non posso certo lamentarmi, ma non vorrei che i nostri rifugi venissero testati realmente in un’occasione del genere». Ron Hubbard ha un nome fin troppo conosciuto, ma nessuna parentela dichiarata con il fondatore di Scientology e tantomeno condivide i credo e le ideologie del suo famoso omonimo. È un tipico businessman americano, fondatore, proprietario e presidente di una società che negli ultimi mesi ha visto schizzare in alto le vendite dei suoi prodotti (e i suoi profitti) qualunque fosse l’andamento di Wall Street. Anzi, quando la Borsa oscilla verso il basso, influenzata dalle tensioni internazionali e dai timori di una possibile guerra atomica, i suoi affari vanno ancora meglio.

Atlas Survival Shelter è il più importante produttore di rifugi atomici, bunker a prova di bomba nel senso letterale del termine. Che nell’America di oggi, tra le provocazioni missilistiche (e i test nucleari) di un dittatore nordcoreano della cui lucida follia ancora non conosciamo i limiti e i proclami “alla Stranamore” del presidente Usa meno controllabile della storia recente, stanno vivendo un boom che ricorda quello degli anni Cinquanta e della Guerra Fredda, quando il mondo pensava davvero di essere sull’orlo dell’olocausto atomico.

«È pazzesco, mai vista una cosa così. Le richieste arrivano da ogni angolo degli Stati Uniti, solo nella giornata di oggi ho venduto rifugi atomici in North Carolina, Tennessee, Texas, Oklahoma, Louisiana, Oregon, Washington, Arizona, California», racconta Hubbard a giornali e tv (lo si può contattare anche via Facebook). Con l’acuirsi della crisi tra Usa e Nord Corea, con il recente test della bomba all’idrogeno (il sesto esperimento nucleare nella storia della dittatura satrapo-comunista, il primo fu nell’ottobre 2006) e con i piani del Pentagono per un attacco militare in grande stile pronti sul tavolo di The Donald, i timori di chi pensa possibile una prossima guerra atomica (fosse pure locale e limitata) non vengono più liquidati come fantascienza o fiction da Hollywood.

Grazie a una campagna di marketing piuttosto efficace («mille fotografie degli interni dei nostri rifugi!», pubblicizza il sito di Atlas Survival Shelter) vengono venduti bunker di ogni tipo, con prezzi che variano dai 10 mila dollari fino ai 100 mila dei modelli più comodi e lussuosi. Tutti da installare a una profondità di sei metri, dove la gente (anche intere famiglie) possono sopravvivere fino ad un anno senza dover mettere il naso fuori. Il modello più venduto è quello che costa 50 mila dollari, «perché può essere scavato anche nel giardino di casa».

C’è più paura nell’America rurale e meno esposta ai rischi di guerra (o anche di terrorismo), l’America che ama Trump e che vorrebbe “ridurre in cenere” la Corea del Nord (una tipica contraddizione Usa), che non nella grandi metropoli, dove lo scetticismo è più diffuso e il fatto che un missile a testata nucleare non possa (con i rapporti di forza odierni) raggiungere le città delle coste Usa viene dato per scontato. Anche a New York non manca però chi predica il detto “non accade, ma se dovesse accadere meglio essere pronti” e cominciano a vedersi (almeno a livello pubblicitario) gli specialisti in grado di rimettere in sesto i vecchi bunker antinucleari che si trovano nei “basement” sin dagli anni Cinquanta. Nel palazzo dove abito esiste da sempre negli scantinati la “stanza atomica” dove rifugiarsi in caso di attacco nucleare, anche se al momento viene usata come una sorta di ripostiglio condominiale.

Se la paura (quella vera) è più tangibile in Corea del Sud e Giappone -«è lì che vendiamo adesso la maggioranza dei nostri rifugi atomici», spiega Hubbard - la “sindrome atomica” da anni Cinquanta ha fatto la propria ricomparsa anche negli States. Un recente sondaggio di Public Policy Polling (pubblicato da Axios, il sito di news e analisi nato quest’anno da una costola di Politico) rivela come una maggioranza schiacciante degli americani (82 per cento) abbia oggi paura di una guerra nucleare con la Corea del Nord. Nel totale si somma il 40 per cento di chi ha “molta paura” e il 42 per cento di chi ha “un po’ di paura”, con solo il 15 per cento che “non ha assolutamente paura” e il 3 per cento che non si pronuncia.

Il sondaggio, che è stato commissionato da “Vote Vets” (organizzazione che si occupa dei diversi problemi dei militari americani nelle zone di guerra e dei veterani colpiti dai vari stress post-bellici), è interessante anche perché spiega le differenza su questo argomento tra i due grandi schieramenti politici Usa: con i democratici che hanno “molta paura” della guerra contro Kim Jong-un al 51 per cento (più il 36 per cento che ha “un po’ di paura”) e i repubblicani rispettivamente al 32 e 49 per cento.

Un popolo, quello americano, che è unito da un’ansia comune (e crescente) riguardo alla Corea del Nord e alle minacce del giovane dittatore asiatico, ma che resta molto diviso su quali misure prendere per evitare (o nel caso dei falchi più estremisti per agevolare) che una guerra ipotetica diventi in breve tempo reale. Anche altri sondaggi, sia pure con numeri un po’ diversi, sono concordi nel rilevare come la grande maggioranza degli americani temano fortemente che gli Stati Uniti si imbarchino in una guerra dalle conseguenze difficilmente immaginabili. Sullo sfondo un’ulteriore ansia: i forti dubbi nell’opinione pubblica sulle capacità del “Commander in Chief” Donald Trump (il cui approval rating è ai minimi storici) di gestire una situazione così complicata.

L’America di oggi non è più quella degli anni Cinquanta, per i giovani (e ormai anche meno giovani) il conflitto nucleare è qualcosa di cui hanno (forse) sentito parlare dai genitori, che conoscono solo attraverso film di fiction (spesso mediocri) o ancora meglio smanettando sui video-giochi con cui sono cresciuti. Per i millennials (la generazione nata tra il 1982 e il 2000) ma in parte anche per la generazione X (i nati dalla metà degli anni Sessanta in poi, oggi quarantenni o cinquantenni) il famoso “duck and cover”, l’esercitazione per l’allarme atomico obbligatoria in tutte le scuole americane negli anni della guerra fredda è qualcosa di visto in vecchi filmati o al massimo uno sbiadito ricordo da bambini. Solo i soliti baby-boomer (ormai quasi tutti pensionati o alle soglie della pensione, pur continuando ad essere una fetta importante della classe dirigente Usa) hanno ricordi nitidi della Guerra Fredda e delle paure nucleari di allora, ma ciò non toglie che anche nei forum giovanili, sui social network e nelle discussioni a scuola i giovani di oggi siano sempre più coinvolti sul tema.

C’è chi chiede a Trump di usare le armi atomiche contro la Corea del Nord (capofila Fox News che paragona sempre più spesso Kim Jong-un ad un Adolf Hitler dei giorni nostri) e chi invita alla moderazione e al dialogo; c’è chi ritiene che sia sufficiente un piccolo attacco (anche con armi convenzionali) per mettere fine alle ossessioni nucleari del dittatore asiatico e chi ritiene che dare il via alle polveri potrebbe trasformare la penisola coreana (e il Giappone) in un grande Vietnam degli anni Duemila. Ci sono i militari che hanno piani A, B, C e via dicendo con il Pentagono che prevede almeno una dozzina di scenari diversi. C’è chi vuole puntare sulla Cina e chi vede una guerra alla Corea del Nord come un modo per dare una bella lezione proprio ai cinesi. C’è chi pensa ai rischi per i militari americani che sono stanziali nell’area (solo tra Guam e la Corea del Sud diverse decine di migliaia) e chi già li vede protagonisti di atti eroici contro i “musi gialli”. La verità è che nessuno sa esattamente cosa possa accadere.

I toni combattivi (almeno a parole) di The Donald preoccupano il Congresso in modalità bipartisan. Non sono pochi - e crescono con il passare delle settimane - i senatori e deputati di entrambi i partiti convinti che il comportamento dei presidente sia tutt’altro che all’altezza, che i suoi proclami non facciano altro che esacerbare una situazione fin troppo delicata e compromessa. Nella “guerra via Twitter”, le minacce con cui Trump risponde alzando il livello verbale a ogni nuova provocazione militare (e del tutto reale) di Kim Jong-un, il presidente americano ha tutto da guadagnare per se stesso e tutto da perdere per l’America. Ogni volta che minaccia il dittatore nordcoreano migliaia di nuovi adepti si aggiungono ai milioni di follower che seguono Trump sul popolare social network dell’uccellino (attualmente sono circa 37 milioni e mezzo sul suo profilo @realDonaldTrump) in quella che è da mesi una sorta di linea-diretta con i sostenitori più fedeli, pronti ad accettare dal presidente «che abbiamo eletto» qualsiasi decisione o slogan, qualsiasi contorsione politica e anche qualsiasi contraddizione o bugia.

Joaquín Castro, deputato democratico alla Camera dei rappresentanti per il ventesimo distretto del Texas (nonché fratello gemello di Julián, ex sindaco di San Antonio e poi ministro di Obama, considerato per qualche tempo una delle nuove star democratiche) è uno dei capofila anti-Trump sul conflitto Usa-Corea del Nord ed è piuttosto scettico sulla piega che sta prendendo. «Non credo proprio che sia di molto aiuto per gli Stati Uniti dare vita a un “twitter match” da imbonitore con un dittatore di 33 anni di cui sappiamo molto poco e le cui possibili reazioni anche i nostri migliori esperti militari non sono in grado di ipotizzare con certezza. Mi sembra che non faccia altro che peggiorare una situazione che è già troppo tesa. Lasci che della Corea del Nord se ne occupino i diplomatici, i generali e le altre persone che per ruolo e capacità sono in grado di maneggiare la situazione».

Un atteggiamento che al Congresso è condiviso da molti e che in campo repubblicano è rappresentato dal senatore che Trump considera ormai un suo nemico personale. John McCain, eroe di guerra, prigioniero dei vietnamiti, militare torturato ferocemente per anni e soprattutto uomo tutto d’un pezzo molto stimato dai vertici militari del Pentagono, sull’argomento è stato lapidario: «I grandi leader non lanciano minacce a meno che non siano pronti ad agire. E io sono convinto che Trump non sia pronto».