Per rifondare l’Europa bisogna partire dal terremoto. Senza retorica e tornando a essere Stato

AGOSTO 2017. Fra un anno esatto. Ci sarà una conferenza stampa, là dove una volta sorgeva Amatrice. Luogo simbolo del terremoto che ci ha colpiti al cuore. Il cuore d’Italia. Fra Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo. Ci saranno un premier, un capo di protezione civile, un paio di ingegneri con l’elmetto giallo, centinaia di giornalisti faranno il punto. Sullo sfondo vedremo una mappa del sisma. Cerchi concentrici, bandierine, diavolerie elettroniche, statistiche. Istogrammi e grafici cartesiani. Il modo che usiamo noi per conservare le cifre della disperazione.

Ci sarà un prefabbricato. Una specie di quartier generale dell’emergenza. Arriveranno in massa. In orario. E ci diranno cos’hanno fatto in dodici mesi, mentre le popolazioni dentro le baracche cercano di ritrovare un’esistenza, fermata da un silenzio di pochi secondi e da un ruggito sordo che dal ventre della terra, come le fauci avide di una bestia mitologica, ti risucchia.

Qualcosa lo Stato avrà certamente fatto. Diranno che l’Aquila qui non c’entra. Che la lezione è imparata. E ci mancherebbe altro. Si rimpalleranno un po’ di colpe, un po’ di responsabilità. Ci diranno che la mafia, la criminalità, le risate notturne di chi lucra sulle disgrazie d’Italia sono state fermate e che questo rallenta un po’ le cose. Ci diranno che c’era poco cemento in questa o in quella struttura antisismica e che l’appalto va un po’ rivisto. Ma che l’Italia sta dando grande prova di sé e che tutti hanno una sistemazione. Chi più chi meno di fortuna. Ci diranno anche che i soldi stanziati non bastano più, ma che ne arriveranno degli altri. Fondi europei, flessibilità, tagli alla burocrazia che tornano a disposizione del Paese. Commenteremo, ci scanneremo nei talk, diremo che ha ragione tizio o caio. E a questo punto ci saremo dimenticati di loro: i morti.

Vengo da un terremoto, quello del Friuli. So come quella scossa ti entri dentro. Sotto la pelle. Distrugge lo scheletro delle case, ma distrugge soprattutto lo scheletro della nostra esistenza. Si ferma il tempo e poi riparte che nulla c’è più. Dura un attimo e dura per intere generazioni. E l’Italia è un paese che digerisce in fretta. Troppo in fretta. Se domandi in giro quanti morti ci sono stati al Bataclan, o a Nizza, non se lo ricorda già più nessuno. L’indignazione dura meno della scossa del terremoto. Ma distrugge altrettanto. Perché tragedia dopo tragedia, anziché imparare a essere più veri, diventiamo più cinici. Anche il dolore si fa abitudine. Brutto da dire ma doveroso verso i morti di Amatrice, Accumoli, Arquata e Pescara del Tronto. Verso la morte e la devastazione che ha colpito quattro regioni.

Abbiamo il dovere di fare (anzi di essere) qualcosa in più dei titoli dei giornali e degli speciali della tivù. Glielo dobbiamo non solo perché sono martiri italiani. Glielo dobbiamo perché ci siamo riempiti la bocca di buoni propositi negli ultimi mesi. E negli ultimi giorni.

Il manifesto di Ventotene. Il vertice Renzi-Hollande-Merkel. Il sogno. Ne abbiamo letto a paginate. L’isola, la sua forza ideale, le celle del carcere borbonico pronte a diventare camere per studenti europei. E la portaerei Garibaldi che prende il largo da Napoli. Voglia di un domani europeo, nella nostalgia di un grande ieri. Ma poi viene mattina, ti alzi e ti rendi conto che perché qualcuno ci creda davvero, almeno stavolta, c’è una prova da superare. Non si può rifondare l’Europa se non sappiamo rifondare Amatrice. Altrimenti diventa retorica. E la retorica è la cosa peggiore che esista di fronte alla verità della morte.

Al lutto nazionale, alla solidarietà dell’Italia perbene, della Protezione civile, delle associazioni di volontariato, di migliaia di italiani qualunque che danno quello che hanno, sangue, vestiti, cibo o denaro possiamo rispondere in due modi: una seconda morte di Stato, fatta di promesse e strumentalizzazioni, per non dire di business. Oppure la rinascita. Nel nome di quei bambini, di quelle donne, di quegli uomini imprigionati dalle macerie della loro stessa vita che cadono, improvvise nella notte, portandoseli via.

Guardiamoci in faccia. E diciamoci subito che fra un anno dobbiamo arrivare a quella conferenza stampa con la testa alta. Essere in grado di pronunciare i nomi di quei morti senza imbarazzo e senza vergogna. Senza dover dire mai un “sì, ma” durante quel discorso.