Il terremoto in Sicilia ha inaugurato decenni di sprechi e malapolitica. E creato un modello d’affari marcio che dall'Isola si è esteso alle altre aree colpite dai terremoti, dall’Irpinia all’Abruzzo. Fino agli ultimi in Centro Italia (Foto di Giorgio Di Noto)

Si chiama Valle del Belìce, con l’accento sulla i. Dalla notte del terremoto del 1968, per un refuso, diventò per tutti gli italiani Valle del Bélice, con l’accento sulla e. Questa terra martoriata perdette anche il suo nome, sotto le macerie del più doloroso dei primati: fu il teatro del primo grande sisma del dopoguerra. Oggi, a mezzo secolo di distanza, e almeno sette maxi-catastrofi naturali dopo, la Valle del Belìce sa di contare un altro record: ha tenuto a battesimo il sistema nazionale di corruzione basato sull’emergenza, quello del “terremoto infinito”.

La terra trema. Tutto comincia da lì. Quando nel 1948 Luchino Visconti traspose al cinema “I Malavoglia” di Giovanni Verga, gli italiani applaudirono un capolavoro del neorealismo. Ma quando, all’indomani della notte tra il 14 e il 15 gennaio del ’68, immagini tanto simili a quel film irruppero in tutte le case, grazie alla tv in bianco e nero, fu uno choc collettivo. La Sicilia di Verga, trasformata in immagini da Visconti, e ora documentata nei telegiornali da Sergio Zavoli, non era dunque solo fiction. Una scossa di magnitudo 6,4 aveva mostrato la carne e il sangue di Gibellina, Salaparuta, Montevago, Poggioreale, Santa Ninfa, Santa Margherita Belìce, mietendo circa 400 vittime in tre province (Trapani, Agrigento, Palermo), distruggendo sei paesi, con oltre mille feriti e tra 70 e 90 mila sfollati.

Uno degli inviati del quotidiano palermitano L’Ora, Bruno Carbone, partito a bordo di una jeep, riuscì in quelle ore a raggiungere Montevago, un centro di tremila abitanti raso al suolo. Venne circondato da una muraglia di profughi che invocava cibo e coperte. «I bambini muoiono per strada», gli urlavano. Più tardi, tra le macerie della scuola, il cronista trovò i disegni e i temi dei ragazzi, che nel corso di una lezione avevano descritto il proprio paese. Il servizio che ne trasse (“Com’era bella Montevago nella fantasia dei suoi scolari”) fece il giro del mondo. Ora la tragedia aveva un volto e un nome, quello dei figli di Montevago, il paese che non c’è più.
«Un clima da anno Mille», lo definì Leonardo Sciascia. Lo scrittore scrisse a caldo: «Dodici ore dopo la sciagura, a Santa Margherita Belìce, non era arrivata né una tenda, né una pagnotta, né una coperta... per quelli lì, a Santa Margherita, a Montevago, a Gibellina, a Salemi; quelli che vivono nelle case di gesso e ci muoiono; quelli cui restano soltanto gli occhi per piangere la diaspora dei figli, pulviscolo umano disperso nel vento dell’emigrazione; quelli che ancora faticano con l’aratro a chiodo e con muli; quelli che non hanno né scuole, né ospedali, né ospizi, né strade... la Sicilia è stanca, muore ogni giorno, anche senza l’aiuto delle calamità naturali».

Una profezia, una delle tante, dello scrittore inascoltato. Infatti, placatasi la terra, non fu più la natura ostile ad affilare la falce, ma la mano dell’uomo. «La burocrazia uccide più del terremoto», dovette dire un altro scrittore, Danilo Dolci. Erano appena sorte le prime baraccopoli. Nel 1973, a sette anni dalle scosse, le baracche ospitavano 48 mila persone. Tre anni dopo ne imprigionavano ancora 47 mila. Le ultime baracche sono state smontate solo nel 2006. Nel ’95 è stato calcolato che in 27 anni erano stati spesi almeno sei miliardi di euro. L’ultimo intervento per il Belìce era nella legge finanziaria del 2013. Nacque così l’affare del terremoto, che ci avrebbe accompagnato fino ad oggi. Con costi non soltanto economici. Nel 1970 un pugno di intellettuali (Sciascia, Guttuso, Zavattini, Caruso, Treccani, Cagli, Zavoli, Levi, Damiani, Corrao) insieme ai sindaci della Valle firmarono un appello che descrisse la situazione: «Ad altro non si pensò che alla costruzione delle baracche. Gli effetti non sono dissimili da una vera e propria soluzione finale. Annientamento psicologico, morale e fisico che i lager nazisti più direttamente e sbrigativamente esplicavano».

Dovranno passare altri dodici anni, e altri tremila morti e 80 mila sfollati, perché un presidente della Repubblica, Sandro Pertini, visitando i luoghi di un’altra catastrofe, quella dell’Irpinia, con i sepolti vivi ancora sotto le pietre, si ricordasse della sua precedente visita in Sicilia e di quel parroco di Santa Ninfa che gli aveva chiesto: «Perché viviamo ancora nelle baracche e non ci sono state mai date le case promesse?». Pertini nell’occasione tuonò: «Mi chiedo: dove è andato a finire quel denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belìce? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere? Perché l’infamia maggiore è speculare sulle disgrazie altrui».

Le crude cifre ci dicono che, nel XX secolo in Italia, le vittime di terremoto sono state centomila. La mappa dei grandi sismi più recenti conta 31 morti in Tuscania (Lazio) nel ’71, mille in Friuli nel ’76, quasi tremila in Irpinia nell’80, sette in Molise nell’84, sedici a Santa Lucia (Sicilia) nel ’90, undici in Umbria e Marche nel ’97, trenta in Puglia e Molise nel 2002, 309 a L’Aquila nel 2009, 27 in Emilia nel 2012, 299 nel 2016 ad Accumuli e Amatrice. Eppure la situazione è persino peggiorata, da quel primo assalto alla diligenza nel Belìce e dopo il grido di Pertini, se è vero che in due distinte occasioni (sisma aquilano del 2009 e di Amatrice nel 2016) due imprenditori impegnati nei lavori di ricostruzione, intercettati nel corso delle loro conversazioni, hanno addirittura esultato per le catastrofi, euforici grazie alle prospettive che gli si erano aperte.

Anche qui, bastino le cifre, quella della Commissione ambiente del Senato: quattromila i morti, nei sette grandi sismi italiani seguiti al Belìce. Ben 121,6 miliardi di euro la spesa autorizzata (stima parziale, che non calcola gli imponenti costi indiretti).

Sarà anche vero, come disse Pertini in Irpinia, che non c’è infamia peggiore di speculare sulle altrui disgrazie. Ma è altrettanto vero che se le “disgrazie altrui” nessuno le conosce, sarà difficile fermare i demoni che se ne vogliono nutrire. Anni dopo il terremoto del Belìce, Leonardo Sciascia accettò di scrivere la prefazione al “Quaderno di Montevago” che raccoglieva i lavori degli alunni ritrovati sotto le macerie della scuola.

E annotava: «Nessuno fuori dalla Sicilia sapeva dell’esistenza di un paese chiamato Montevago, al confine tra la provincia di Agrigento e quella di Trapani. Paradossalmente il paese cominciò ad esistere nel momento in cui, sotto la zampata di una belva immane, finiva di esistere». Ma questo non vale forse per quasi tutti i luoghi italiani colpiti dalla “zampata di una belva immane” negli ultimi decenni? E non vale ancor di più per il disinteresse che ne segue dopo, immancabilmente, quando le popolazioni ferite si trovano sottoposte a incredibili vessazioni?
Per la verità, c’è stata di recente una variante tecnologica dell’infamia, rispetto a mezzo secolo fa. La scrittrice Loredana Lipperini, alla vigilia dello scorso Natale, ha diffuso sui social una notizia di agenzia che denunciava la nascita di una rete di account fake legati alle iniziative post-terremoto nel rietino. Questa rete aveva lo scopo di twittare a migliaia di persone (grazie a un programma automatico) la gioia dei cittadini per l’avvenuta consegna di una casa. Consegna, inutile dire, mai avvenuta e solo virtuale. Misterioso l’account di partenza. Il sospetto è che sia legato a qualche ditta impegnata nella ricostruzione. La circostanza fa riflettere. Dopo il 1968 lo sdegno per le baraccopoli siciliane provocò (almeno) una mobilitazione nazionale. Paolo Mieli scrisse allora che nel sisma siciliano era affondata la vecchia Italia con i suoi difetti. Se invece oggi, dopo un sisma, si riuscisse persino a truccare la realtà del dopo, grazie a un bombardamento di fake news, chi se ne avvantaggerebbe?

Una volta alla Camera il ministro dell’Interno Virginio Rognoni, nel riferire sull’ennesima interpellanza a proposito del Belìce, disse: «Nelle zone colpite dal sistema». Si interruppe e immediatamente si corresse: «Volevo dire dal sisma». Leonardo Sciascia commentò: «Andava meglio, in ordine alla verità, il lapsus. Ne uccide più il sistema che il sisma. Ma quale sistema? Credo lo si possa definire con brevità e precisione: il sistema della corruzione».