I documenti arrivati alla nostra piattaforma denunciano la scomparsa di tre studenti prelevati in facoltà. E il caso del reporter condannato all’ergastolo

Stiamo rompendo il buio. Lo sta facendo RegeniLeaks. Arrivano segnalazioni e appelli. Alla piattaforma protetta in tanti stanno affidando la speranza di diffondere la verità e chiedere giustizia. Per Giulio e per tutti i Regeni d’Egitto. Finora sono due le segnalazioni qualificate che “l’Espresso” ha potuto verificare. La prima è un appello disperato di una fonte anonima che vorrebbe salvare la vita a tre studenti spariti nei giorni scorsi dalle rispettive università. La seconda riguarda un giornalista arrestato.

«Ci sono tre studenti, come Giulio Regeni. Sono rinchiusi da qualche parte e chiedono aiuto. Ma il mondo non li ascolta. Noi tutti abbiamo bisogno che voi facciate in modo che il mondo li ascolti prima che vengano uccisi dai loro rapitori. Sono stati prelevati e arrestati mentre erano all’università a dare gli esami. La polizia li ha portati via per le loro idee politiche e perché sono ragazzi liberi, come lo era Giulio Regeni. Per favore parlatene». Il messaggio è arrivato a “l’Espresso” attraverso RegeniLeaks, la piattaforma creata per ricevere informazioni e testimonianze sull’assassinio di Giulio e sulle violazioni dei diritti umani da parte del governo egiziano.
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È una delle diverse segnalazioni ricevute da quando è stato lanciato il progetto, una piattaforma protetta per whistleblower accessibile dal sito anche in arabo e inglese. Tra le varie informazioni, questa richiesta disperata di sostegno arrivata da una fonte anonima. Chi scrive vuole che il mondo sappia che tre studenti rischiano di essere uccisi da un momento all’altro in uno dei bunker del regime di al Sisi. «Sono spariti forzatamente e nessuno sa dove si trovino in questo momento, ma sicuramente sono sottoposti a torture attraverso scosse elettriche e pestaggi brutali», ha scritto la fonte anonima sulla piattaforma. E ha lanciato un appello: «Vogliamo che voi diciate al mondo che ci sono tre studenti arrestati dalla polizia mentre facevano gli esami all’università e ora stanno subendo delle violenze e rischiano di essere uccisi nelle prossime ore o nei prossimi giorni. È urgente che li salviate facendo sentire la loro voce al mondo. Vi prego lasciate che ne parli anche la mamma di Regeni».


La fonte ha fornito alcuni dati delle tre vittime che “l’Espresso” ha potuto verificare. La loro sparizione è stata effettivamente segnalata anche da un gruppo di attivisti egiziani che si fa chiamare “Spezza le manette”. Dalle verifiche fatte, è emerso che i tre studenti di cui parla il whistleblower frequentavano alcune università ad Alessandria. Mohamed Mahmoud era al secondo anno in un istituto tecnico di alta formazione. Il 15 maggio scorso è stato convocato dal segretario della facoltà ed è stato consegnato poi alle forze di sicurezza. L’unica spiegazione che hanno ricevuto i suoi colleghi è che sarebbe stato trasferito per essere seguito da una commissione speciale. La realtà è che da quel giorno non si hanno più sue notizie. Secondo il gruppo di attivisti che ne ha denunciato l’arresto dovrebbe essere rinchiuso in una centrale di polizia.

Ahmed Abdel Hady è iscritto invece al dipartimento di ingegneria meccanica. È stato fermato dalla sicurezza interna dell’università mercoledì 25 maggio per essere consegnato agli agenti. Finora nessuno sa dove si trovi. Risulta semplicemente scomparso. Come le centinaia di egiziani spariti nei mesi scorsi. Portati via da polizia o servizi segreti perché avevano espresso opinioni contrarie alla linea del regime. Il terzo episodio ha per protagonista Aabed Alae Eddine, iscritto alla facoltà dei sistemi dell’informazione. Anche in questo caso è stato convocato dall’amministrazione per poi essere consegnato alle forze dell’ordine. La motivazione è che avrebbe violato il regolamento scrivendo su un foglio riservato alla commissione d’esame. Di lui non si hanno più notizie. Il timore è che i tre ragazzi portati via dalle rispettive università siano sottoposti allo stesso trattamento che ha ucciso Giulio.


La seconda segnalazione riguarda Abdullah Alfakharany. Un giovane giornalista, laureato in medicina, cofondatore del sito Rassd e membro dell’Osservatorio Euro-Mediterraneo per i diritti dell’uomo. Il 25 agosto 2013, a 23 anni, Alfakharany è stato arrestato dalle forze di polizia perché si è trovato in mezzo a un’irruzione nell’appartamento di un conoscente. Con lui sono finiti in manette anche due amici. Hanno trascorso la prima settimana con settanta detenuti in una cella dove ce ne stavano dieci. In seguito sono stati trasferiti nella prigione di Wadi Natroun dove le guardie li hanno accolti con insulti, minacce con i cani e botte. Per sei mesi i suoi avvocati non lo hanno potuto difendere. Gli è stato negato ogni diritto. Non ha potuto presenziare nemmeno per poter ascoltare la propria condanna all’ergastolo. Condannato al carcere a vita semplicemente perché faceva il giornalista.

Dopo il provvedimento, è stato tenuto dieci giorni in isolamento e trasferito poi in una prigione di massima sicurezza. Per 23 ore al giorno viene tenuto in una cella di venti metri quadri con altre 25 persone. Gli avvocati si stanno battendo per ottenere l’annullamento della condanna ma intanto Alfakharany il 21 maggio scorso ha raggiunto i mille giorni di carcere e il giorno dopo ha compiuto 26 anni. I familiari lo possono visitare una volta alla settimana per cinque minuti. E spesso gli vengono negati anche quei cinque minuti.


Negli ultimi mesi, più o meno dal ritrovamento del corpo di Regeni, un’ondata di arresti ha travolto decine di studenti e attivisti in tutto il Paese. Una morsa che non ha risparmiato il consulente della famiglia del ricercatore friulano, Ahmed Abdallah, presidente del consiglio di amministrazione della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, e l’avvocato e attivista per i diritti umani Malek Adly, incarcerato a inizio maggio. A raccontare a “l’Espresso” la drammatica situazione che sta vivendo Adly è la moglie Asmaa Aly, anche lei attivista per i diritti umani e collaboratrice del Cospe al Cairo: «Si trova in una cella d’isolamento da 25 giorni. Ha solo due coperte, non ha nemmeno un letto. Ogni volta che l’abbiamo chiesto alle guardie ci hanno risposto che non hanno ricevuto ordini in merito. Ha la pressione molto alta e non viene assistito. Temo per la sua vita perché è da solo. Gli hanno vietato persino di parlare con gli altri detenuti».


Un appello per chiedere al ministro degli Esteri Paolo Gentiloni di intervenire per la scarcerazione dell’avvocato Adly è stato lanciato da Cospe Onlus. «Malek, oltre ad aver difeso in tribunale diversi casi legati alle libertà e ai diritti civili di tanti cittadini», scrive il Cospe, «di recente stava trattando il caso della cessione da parte del governo egiziano, senza alcuna consultazione nazionale, delle isole di Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Inoltre, l’attivista si era esposto pubblicamente sulla vicenda di Giulio Regeni». Finora però sembra che nulla sia riuscito a scalfire la ferrea strategia repressiva del generale al Sisi. L’ultimo affronto è di qualche giorno fa. Il 29 maggio scorso è scattato l’arresto di Yehia Qalash, presidente del Sindacato dei giornalisti egiziani, insieme a due altri membri del consiglio direttivo, Khaled al Balshi e Gamal Abdel Rahim. Amnesty International l’ha definito «il più sfrontato attacco alla stampa del Paese arabo negli ultimi decenni».