Parlano i superstiti dell'eccidio del 12 agosto 1944, quando nel paese toscano le SS uccisero 560 persone. C'è chi sogna ogni notte la fucilazione dei suoi cari. Chi ha cercato per anni l'unico soldato 'buono' che sparò in aria per salvare i prigionieri. E chi dice: "Se l'Europa oggi è in pace, lo deve anche a queste vittime"
“Io ci penso sempre. Anche stanotte scappavo. Da che cosa? Dai tedeschi”.
Adele Pardini ha 75 anni, ma quando scende il buio, torna ad averne quattro. Torna a Sant'Anna di Stazzema, il 12 agosto 1944. “Ci presero. Avevano una retina nera sul viso, tutti e tre. Ci misero al muro con altri. Nel cadere sotto i colpi delle mitragliatrici, la mamma aprì una porta. Mi ci infilai dentro e mi salvai. Per fuggire, dopo, dovetti camminare sul suo corpo. Si salvò anche mio cugino,
Ilio Pardini, che da quel giorno divenne cieco per lo spavento. A mio zio
Emilio Battistini i tedeschi fecero portare le munizioni. Ma quando sentì la sparatoria venire da dove aveva moglie e figli, si fece uccidere. Il mio babbo non ne ha più parlato, ma per tutta la vita ogni tanto si metteva a piangere e diceva: “Che avranno fatto di male?”.
Nel salotto della casa di Pozzi, frazione costiera di Seravezza, accanto ad Adele c'è il figlio, Graziano Lazzeri. Si sarebbe chiamato Anna Maria Bruna, se fosse nato femmina. Bruna come la mamma di Adele, Anna e Maria come le sorelle morte, che la guardano ogni sera da una foto davanti al letto. Aveva venti giorni e sette pallottole dentro, Anna. E' lei la più piccola delle 560 vittime travolte dalla 16a divisione Reichsführer SS.
“Tutt'oggi se ci penso ho difficoltà a credere che sia successo veramente, tanto è assurdo. Ho passato quasi tutta la vita a fare analisi o psicoterapia. Io non ero ancora nato, ma non passa giorno che non ci pensi” spiega Graziano. Cesira Pardini, sorella di Adele e medaglia d'oro al valore civile, racconta che, quella mattina presto, passò un tedesco da casa loro e le fece cenno di scappare via. “Evidentemente la sua coscienza glielo ordinava” commenta Adele. Ma Graziano non crede ai nazisti buoni. “Assolutamente, per nulla. Macché atti di bontà!” sbotta scuotendo la testa.
Enio Mancini, il cacciatore di nazisti buoniEppure tra i superstiti c'è chi deve la vita a uno di questi “nazisti buoni”. E' Enio Mancini, che a 6 anni fu rastrellato insieme ad altri dal borgo di Sennari e messo in una colonna affidata a un tedesco giovanissimo. Rimasto solo con loro, il soldato ordinò di fare silenzio e fuggire e poi mitragliò l'aria. Non passa giorno che Enio non ci pensi. “Perché è importante trovare qualcuno che ha resistito al male quel giorno? Per fare una differenza. Perché la scelta è sempre individuale. Gli ordini non valgono in assoluto. Non è obbligato, un soldato, a obbedire agli ordini illegittimi” ripete, seduto in poltrona nella sua casa a Valdicastello, vicino a Pietrasanta.
Il primo nipote di un “nazista buono” contattò Enio 5 anni fa. Si chiamava Jochen Kirwel, aveva 27 anni e un nonno ex SS, che gli aveva raccontato, prima di morire, di aver sparato in aria salvando la vita ai civili. “Invitai il ragazzo all'ambasciata tedesca a Roma. Ci abbracciammo, fu
emozionante. Poi però lo storico Carlo Gentile scoprì che quel nome nel battaglione non c'era. La divisione era la stessa, ma il reparto un altro. Il nonno gli aveva raccontato un episodio avvenuto sulle colline toscane, ma evidentemente non era Sant'Anna”.
Enio tira fuori un biglietto spiegazzato dal portafoglio. Sopra, poche cose scritte a mano, di fretta. Un nome, un telefono, un indirizzo. “Tre anni fa mi ha telefonato un certo Frederich Holzer dalla Germania, parlava italiano. Mi ha spiegato che suo nonno Heinrich era quello che mi salvò. Nell'elenco dei soldati di Sant'Anna, questo nome effettivamente c'era. Era nato il 10 novembre del 1926, pertanto nell'agosto del '44 non aveva ancora 18 anni. E' morto il 10 marzo del 2012, poco prima che il nipote mi telefonasse. Gli chiesi perché il nonno non si fosse fatto vivo, mi spiegò che aveva paura di essere incriminato. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata. Disse che ad agosto voleva venire con suo padre a Sant'Anna, ma non l'ho mai visto. L'ho cercato, ho provato a richiamarlo al numero che mi ha lasciato, ma nessuno risponde. Lo porto sempre con me questo foglietto, perché ho paura di perderlo. E ogni volta che vado in Germania, invitato a un incontro, faccio un appello, perché qualcuno si riconosca e si faccia vivo, anche se solo per interposta persona, come tramite un discendente... io speravo di trovare l'originale, sarebbe stato bello”.
Una strana visita negli anni '90. “Era uno di loro. Un SS tornato a Sant'Anna”A distanza di anni, Mancini se l'è trovato davanti un SS “originale”, ma non di quelli “buoni”. “All'inizio degli anni '90, ero al Museo di Sant'Anna. Arrivarono due signori tedeschi. Lei parlava italiano, lui stava in silenzio. Giunti davanti al pannello con le foto dei bambini uccisi, dissi che i due cuginetti Wilma e Velio Bartolucci erano i miei amici d'infanzia e allora i due capirono che ero un superstite. L'uomo, che mi appariva di una freddezza unica, davanti ai bimbi se ne andò via, sulla piazza della chiesa. Aprì una cartina. Si guardava intorno insistentemente. Fece il giro intorno alla chiesa, dietro il campanile. Lo guardavo sospettoso, mi sentivo agitato. Era una rarità. Ho chiesto alla moglie se il marito avesse fatto il soldato. Lei mi rispose in italiano: “Sì, purtroppo”. “E' stato qui?”. Lei mi disse: “Mio marito ha fatto la guerra in Italia ma non ne vuole parlare neanche con me”. Ma era chiaro che sapeva. Sapeva esattamente. Che senso ha controllare la carta per uno che arriva a Sant'Anna sulla piazza della chiesa? Eventualmente uno guarda il monumento, guarda le scritte, la chiesa. Poi l'uomo si girava intorno, guardava in alto, le montagne, voleva vedere sicuramente da che passo era sceso. Io sono convinto matematicamente che era uno di loro. Io sono convinto che quest'uomo fosse ritornato. Non so il nome, non si è presentato. Lo volevo far firmare sul registro delle presenze, ma la firma non l'hanno messa, l'hanno negato ripetutamente”.
Enio Mancini: “Giustolisi? La giustizia è nata con lui”Pochi anni dopo, nel 1994, i fascicoli su Sant'Anna e sulle altre stragi nazifasciste compiute in Italia furono rinvenuti in un mobile posto ante al muro negli scantinati della Procura militare a Roma. Era il cosiddetto Armadio della Vergogna, che dà il titolo al libro di Franco Giustolisi, firma storica dell'Espresso. Scomparso nel 2014, fu soprattutto lui a spingere i
superstiti a chiedere giustizia.
Così lo ricorda Enio Mancini: “Giustolisi è stata una persona difficile, difficile, alla quale ero affezionato, per la volontà e la forza. Abbiamo avuto delle battaglie, degli incontri alla Camera, al Senato, alla Presidenza della Repubblica, perché lui insisteva con la giustizia, la giustizia, la giustizia...giustamente. La giustizia è nata con lui. Lui ci ha dato lo stimolo per avere la forza. Lui non si arrendeva contro nessun muro. Li abbatteva tutti. E ci ha aiutato molto il suo carattere, a me ha fatto capire che era necessario spingere, essere in qualche modo anche prepotenti, come sapeva essere lui. Era difficile come personaggio. Difficile perché urlava, non scendeva a compromessi. Non era accomodante. Gli dicevano: “Sì, vediamo”. E lui: “Non vediamo, facciamo subito!”. Parolacce, diceva. Verso i politici, le istituzioni. Come giornalista aveva la faccia dura, la faccia come il culo, come si dice. Però con i superstiti era dolce. Ci siamo parlati tante volte”.
Martino, il giovane di Sant'Anna: “C'è una cappa di cimitero. Va bene ricordare, ma così è troppo”Nessuno vuole vivere a Sant'Anna. Dopo 71 anni, ci sono ancora case bruciate e abbandonate, sparse a manciate sui pendii dei monti: ai Franchi, alla Vaccareccia, ai Bambini, al Moco, per citare qualche borgo. Non c'è un centro, se non il prato davanti alla chiesa, sul quale si affaccia un'unica bottega di alimentari. Oggi a Sant'Anna abitano solo 20 persone. Più un ragazzo, giunto qui per scelta. Si chiama Martino Tessandori, ha 22 anni, studia ingegneria a Pisa ed è originario “del piano”, come lui chiama la costa. “Coi miei genitori, pensionati, ci siamo trasferiti in pianta stabile 7 anni fa. Ma da piccolo passavo qui tutte le estati. Spero di rimanere sempre qua. Cosa c'è di bello? Il paesaggio. E la libertà: di girare nel bosco, di fare l'orto. Purtroppo da un lato mi sembra un paese cimitero. Va bene, è successo quello che è successo, sono passati 70 anni, però, voglio dire, ci sono anche quelli che sono vivi”.
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Martino è vicino a quei santannini che vogliono dimenticare e guardare avanti. “L'associazione martiri qua è vista malissimo da tutti quelli che non ne fanno parte. L'idea che la gente ha dell'associazione è che si vogliano far notare, quando c'è la ricorrenza del 12 agosto, da persone importanti che vengono. Questo è quello che mi dicono. Ma io me ne tengo fuori perché non c'ero. Non so cosa dire, non ci capisco nulla. Nasce tutto da diverse versioni di quello che è accaduto qui il 12 agosto del '44, quello che qua chiamano “il fatto”. Non sono tutti d'accordo se ci sono o non ci sono stati fascisti italiani che hanno aiutato i tedeschi. Molti dicono di no, che non è vero, è impossibile”. Eppure sono tante le testimonianze di gente che ha udito gli aguzzini, a volto coperto, parlare italiano, anzi, dialetto versiliese. “Io non lo so, perché non c'ero, per fortuna. Quando moriranno tutti i superstiti, non so come andrà. Spero che vada via questa cappa di cimitero che c'è in tutto il paese. E' giusto il ricordo, ma così è troppo”.
Enrico Pieri: “L'Europa e i 70 anni di pace sono nati anche qui”“Serve ancora la memoria secondo te?”. La domanda arriva a bruciapelo.
Enrico Pieri, 81 anni, mi ha appena mostrato la casa ai Franchi dove fu massacrata la sua famiglia, mentre lui, impotente, assisteva nascosto in un sottoscala, le orecchie tappate per non sentire mitragliate, grida e lamenti. “Possibile che gente come Salvini si dimentichi di quello che è successo nella seconda guerra mondiale?” chiede.
Fa la domanda, ma già sa la risposta: sì, serve, la memoria. Da quando, dopo una vita da emigrato in Svizzera, è tornato a stare in Versilia, non passa giorno che Pieri non salga a Sant'Anna con l'Ape. Per andare a trovare i “suoi” e, soprattutto, parlare alle migliaia di studenti che ogni anno giungono qui da tutta Europa. “Non è facile. A volte le bambine si mettono a piangere. Ma è importante che gli insegnanti li preparino e li portino qui. In luoghi come Sant'Anna e Auschwitz sono nate la costituzione italiana, come diceva Calamandrei, e quella europea. Se abbiamo 70 anni di pace e benessere lo dobbiamo al sacrificio di tutti quelli che sono morti nella seconda guerra mondiale”.
Enrico Pieri non ha parole dolci per le istituzioni. “C'è l'erba alta, manca l'acqua all'Ossario, dopo il vento disastoroso del 5 di marzo ci sono ancora delle piante da tagliare. E la piazza della chiesa viene pulita una volta al mese. Le mie case ai Franchi? Volevo donarle al Comune, perché ci facessero un ostello per i giovani. L'amministrazione in più di un anno non ha ancora fatto un compromesso. Non c'è interesse. Da un mese all'altro posso non esserci più. Pazienza”.
Accanto alla casa abbandonata dei Franchi, c'è una lapide. Enrico vi ha fatto incidere i nomi dei suoi morti. E quelli dei vivi: lui, la moglie, il figlio. Per ognuno, la data di nascita e uno spazio libero per quella di morte. Enrico vive in attesa di riempirla. “Sì, è un'attesa. Pensavo che dopo di me nessuno avrebbe scritto più quei nomi. Ho lasciato detto che preferirei che le mie ceneri le portassero all'Ossario dove sono i miei genitori. Però dato che so che sarà difficile, allora penso che le lascerò lì dove sono stati sotterrati in un primo momento i miei. Lì c'è tutto quello che è la vita. I ricordi di una vita”. Come se, nonostante i suoi 81 anni, lui ne avesse vissuti solo dieci.