Questionari. Piattaforme on line. Test. Per dare alle persone gli strumenti per capire e decidere. E ai dottori quelli per spiegarsi. Poi prescrivere terapie più accettabili caso per caso

Josh Sommer ha 27 anni, ed è il direttore esecutivo della Chordoma Foundation, il più importante ente no profit che si occupa di raccogliere fondi e incentivare la ricerca a favore di un raro tumore delle ossa, il cordoma, appunto. Oggi si definisce un paziente che ha potere, il potere di decidere insieme a medici e ricercatori quali siano le priorità per chi ha una malattia come la sua.

A Josh la malattia è stata diagnosticata quando lui era ancora uno studente della Duke University, nel 2006. E le parole dei medici suonarono come una condanna: non ci sono farmaci, la probabilità di sopravvivere è del 30 per cento e chi ce la fa ha davanti a sé in media 7 anni di vita. Ma lui decide di non arrendersi e si presenta a fare il volontario nell’unico laboratorio di ricerca sul cordoma che poteva contare su finanziamenti federali.

Per due anni studia fianco a fianco con i ricercatori nuove soluzioni per il tumore che lo ha colpito, e lì capisce che per fare ricerca e ottenere risultati ci vogliono soldi, molti soldi, e che i pochi scienziati che se ne occupano in giro per il mondo si devono conoscere e lavorare insieme. Così nel 2008 fonda la Chordoma Foundation, raccoglie quasi 10 milioni di dollari in pochi anni, finanzia una ventina di laboratori e pubblica decine di paper scientifici. Ma soprattutto costruisce un network di relazioni e una biobanca con linee cellulari di questo tumore, indispensabile per far progredire la ricerca visto che si tratta di una malattia rara.

Sommer è un paziente, eppure siede nel board della fondazione e ha il potere di decidere a chi andranno i finanziamenti, incide in modo diretto su quei processi decisionali. La sua storia ce la racconta un medico molto speciale: Gabriella Pravettoni, ordinario di Psicologia all’Università di Milano, ma soprattutto una che si è messa in testa di dare ai pazienti il potere di decidere, quello che gli anglosassoni chiamano “patient empowerment” e ha portato a Milano i finanziamenti di ben 3 progetti della Commissione Europea.

«Quando parliamo di dare potere ai pazienti dobbiamo aver in mente la storia di Josh Sommer: è un caso eccezionale, certo, ma fa capire molto bene la potenza che possiede la spinta quando viene dal basso», spiega Pravettoni. Come dire, insomma, che ognuno di noi, davanti a un medico, dovrebbe essere un po’ Josh: avere la forza di entrare nel processo decisionale.

Come? Acquisendo conoscenze sul proprio stato di salute, imparando a comprendere i sentimenti che si provano, conoscendo meglio le persone che si hanno accanto. «In una sola frase: prendendo potere. Perché una delle regole base della psicologia è che possiamo cambiare noi stessi, ma non gli altri», spiega ancora la psicologa.

L’obiettivo è quello di fornire a chi è affetto da una malattia degli strumenti per poter contare di più, e per farlo in maniera consapevole. Una cassetta degli attrezzi, come la chiamano i ricercatori che in tutta Europa collaborano con la psicologa milanese, grazie alla quale la medicina può diventare davvero personalizzata, «perché dà risposte per quella persona, e mette la persona al centro delle decisioni», sottolinea Pravettoni. Ma non c’è dubbio che questa consapevolezza del malato si possa ottenere solo in un rapporto virtuoso col suo medico. Che, per primo, deve potersi mettere nelle condizioni di capire come iniziarlo.

Per questo il primo degli arnesi di cui parlano i ricercatori è l’Alga-C, un questionario studiato per inquadrare il paziente da un punto di vista psicologico e delle relazioni sociali. «È uno strumento», spiega la psicologa: «Pensato per i medici affinché quando il paziente entra a parlare con loro abbiano chiaro chi hanno davanti e quindi in che modo devono relazionarsi».

Sviluppate dal team del progetto europeo P-medicine, le domande vengono poste al malato prima che entri a fare la visita specialistica e riguardano le sue relazioni sociali, le sue credenze, il suo sistema di valori. «È importante che, ancora prima di parlarle, il medico sappia se la persona che ha davanti può contare su una rete familiare o di amicizie, se soffre di ansia, se ha un comportamento nevrotico, se vive la malattia come una sconfitta, una mutilazione e così via», sottolinea Pravettoni. A seconda del quadro che esce dal questionario il medico potrà usare un linguaggio adatto al livello di comprensione del paziente, permettendogli di trovare la forza di porre le domande importanti per sé stesso.

Per acquisire potere bisogna esercitarsi, e questo è il lavoro che i malati possono fare con gli psiconcologi, negli ospedali che offrono questo servizio. Il team di Pravettoni lavora all’Istituto Europeo di Oncologia, dove conduce ricerche su donne con tumore al seno, pazienti di cancro al polmone, persone che hanno ricevuto l’esito di esami genetici.

«È inutile negarlo, la diagnosi di una malattia grave come il cancro è come uno tsunami, che cancella tutto quello che si era costruito fino al giorno prima», dice la psicologa: «A questo punto spesso scatta un meccanismo di distorsione cognitiva nei rapporti con chi ci è vicino. Si pretende dagli altri una comprensione del dolore, azioni  che siano risolutive, e quasi mai si è contenti di ciò che si riceve».

Ma correggere questa distorsione può essere molto importante: si deve passare dal tu all’io, perché modificando il linguaggio si modifica anche il comportamento. “Ho bisogno di questo, quindi agisco così”, questo deve essere il mantra. «Nell’empowerment c’è una presa di responsabilità, una presa di coscienza del fatto che sono io a poter agire in modo da stare meglio». E come nel caso dei medici, anche nel rapporto con parenti o amici, è il paziente che deve agire per modificare il rapporto, più di mille lamentele questo servirà a cambiare la relazione, e fare del malato il protagonista della sua storia.

Nella cassetta degli attrezzi del paziente empowered ci saranno anche molti utensili digitali: la rete offre opportunità che nell’era pre internet non erano neanche immaginabili. Sempre dal progetto P-medicine arriva MyHealthAvatar, una piattaforma online che permette di archiviare tutte le informazioni sulla propria salute e averle sempre a portata di mano.

Dall’inizio dell’anno, poi, insieme a una squadra nutrita di informatici, gli psicologi del team dell’Università di Milano sono impegnati in un altro progetto europeo, iManageCancer, considerato la continuazione di p-medicine. Questa volta l’obiettivo è quello di realizzare una piattaforma internet che aiuti nella gestione quotidiana il malato di tumore. Come? Per esempio con una app per smartphone che si basa sulla cosiddetta “health unlocked”: l’idea è quella di iscriversi a un network di pazienti dichiarando la malattia che si ha e dove si vive, così da potersi organizzare per migliorare la propria vita quotidiana.

«Se scopro che nel mio quartiere ci sono altre cinque donne che hanno un tumore al seno come me allora potremmo organizzarci per andare a prendere le medicine, fare la spesa, andare a fare la chemio», spiega Pravettoni. Allo studio anche app per specifiche patologie che diano tutte le informazioni utili, ma soprattutto indichino medici e istituzioni che in una determinata zona si occupano di quella malattia e lo facciano bene. «I pazienti più sanno, più partecipano alle decisioni che vengono prese su di loro. E i medici se ne dovranno fare una ragione», conclude la psicologa che all’Università di Milano insegna anche “Decision making” agli studenti di Medicina. Un caso unico in Italia.