Tarantelli. Calabresi. Coco. E tante altre vittime del terrorismo rosso e nero. Da ritrovare in una mostra di foto di famiglia. Per costruire una memoria collettiva

Un padre che sostiene il figlio appoggiato con dolcezza alle ginocchia. Fotografato di profilo, sembra scoccare un bacio, mentre il neonato s'abbandona a occhi chiusi. Una foto quotidiana, a colori, scattata in una situazione di perfetta normalità: canottiera e jeans. Nell'altro riquadro padre e figlio si trovano in montagna, lungo la staccionata che si affaccia su una valle; il ragazzo ficca le mani in tasca per proteggersi dal vento che soffia forte, il padre in giacca: niente capi sportivi, da escursionisti. Un'altra scena di perfetta normalità. Nella terza immagine il genitore regge in braccio la figlia che indica con il dito verso l'obiettivo, sorride, come il padre, e guarda in macchina, mentre il fratello si stringe al fianco dell'adulto, ne afferra la mano protettiva e tiene gli occhi chiusi. Uscite dagli album le tre foto ci raccontano di momenti famigliari, attimi d'intimità vissuti in pubblico, ma diretti a occhi amici, destinati ai ricordi, fissati per sempre nella loro semplicità. Non c'è in queste foto nulla di stereotipato; non sono maschere, o almeno non fuoriescono dai codici consueti di una famiglia in un giorno qualsiasi della seconda metà del XX secolo, in Italia. Sono stili di comportamento che chiunque abbia più di quarant'anni riconosce come propri, o almeno tipici dell'ambiente da cui proviene gran parte della società italiana negli anni Sessanta e Ottanta del Novecento: la piccola borghesia.

È quello che i sociologi chiamano l'habitus, un misto di spontaneità e costume, per quanto uno sguardo estraneo sia in grado di cogliere come parte di un cerimoniale insieme privato e pubblico. Come ha scritto Gianni Celati, sono proprio i cerimoniali che tengono insieme la vita, che le danno quella forma che tutti noi riconosciamo come consueta, comune, persino banale. Ha osservato una volta Stefano Bartezzaghi, a proposito di uno scrittore della banalità, Raymond Queneau, che definiamo banale tutto ciò che è di poco conto, privo di originalità, convenzionale; il suo contrario è: originale, eccentrico, eccezionale. Se il banale è ciò che non è distinto, risulta difficile isolarlo, se non a costo di distruggere la sua essenza; sarebbe infatti «come una macchia lattiginosa che circonda gli oggetti della nostra attenzione: qualora rivolgiamo tale attenzione a questa macchia, incominciamo a distinguerla, e con ciò la togliamo dalla sua banalità».

Con queste foto tratte dagli album famigliari, accade proprio così, almeno fino a quando noi le osserviamo con lo sguardo distratto di chi gira le pagine di un album di sconosciuti, in cui può, se vuole, intravedere qualcosa di proprio, di personale. Ma appena si pone a fianco dello scatto una didascalia, dal banale passiamo al distinto, dall'ordinario allo straordinario, e al significativo, tutto cambia di colpo. La prima immagine, quella del padre che stringe il neonato tra le sue braccia, ritrae l'economista Ezio Tarantelli, ucciso dalle Brigate rosse, insieme al figlio Luca; così come quella della gita in montagna coglie il giudice Francesco Coco insieme al figlio Massimo, anche lui, il giudice, ucciso da un commando terrorista. Fuori dalla banalità di una foto di famiglia lo scatto acquisisce un significato diverso. Per quanto altamente personale, diventa un documento, rammemora un evento criminale del passato e lo fa con ancora più forza proprio perché non è l'immagine della scena del delitto, ma di ciò che viene prima, e ora anche dopo, quell'esecuzione. Il nostro sguardo si è caricato di significati che lo scatto non aveva, che non poteva e doveva avere: due padri con i propri figli. Così l'istantanea che coglie un altro padre in posa, rigida e insieme scherzosa, sulla panchina di un giardino pubblico, mentre stringe il ciuccio del neonato custodito in un cesto lì davanti, diventa qualcosa d'altro appena sappiamo che si tratta di Luigi Calabresi e del figlio Mario.

Il nostro sguardo non è mai innocente, è pur sempre condizionato dalle nostre abitudini, dai nostri pensieri, in una parola: preconcetti. Guardare comporta sempre un qualche pregiudizio. Di questo si tratta nel momento in cui sfogliamo questa sorta di album in cui compaiono le vittime del terrorismo rosso e nero, di sinistra e di destra, che ha insanguinato il nostro Paese tra gli anni Settanta e Ottanta. Giovanni Arnoldi, perito nell'attentato di Piazza Fontana, è in piedi con la moglie e i due figli, una foto in posa, come si usava decenni fa, nella cerimonie di famiglia, ma carica di significati pubblici: serietà, sobrietà, compostezza. Comunica un'idea precisa dei rapporti tra genitori e figli, tra marito e moglie che possiamo decifrare, se vogliamo. E tuttavia questa è, oggi, con la sua didascalia, la foto di un uomo ucciso da un mostruoso atto terroristico da cui sono scaturite conseguenze politiche e sociali nei decenni a seguire. La medesima cosa per il ritratto di Pietro Dendena. Il giorno della cresima del figlio anche Dendena era in Piazza Fontana quel terribile giorno. Storie italiane che scorrono una dopo l'altra. Bianca Daller, seduta su un battello lacustre, vicino a delle mucche del trasporto, la troviamo nel martirologio dei delitti terroristici, parecchi anni dopo: Brescia, piazzale Arnaldo, dicembre 1976; ha 60 anni ed è insegnante di tedesco. Una bomba neofascista. Anche Livia Bottardi, ritratta con gli amici, seduti a parlare, era un'insegnante: Piazza della Loggia, Brescia, maggio 1974.

Cosa sono queste foto? Forse per capirlo bisognerebbe accostarle a un'altra immagine diventata celebre: l'autonomo che punta la pistola, in atto di sparare in via De Amicis a Milano negli stessi anni; oppure quelle, altrettanto tristemente note, dei sequestrati delle Brigate Rosse, da Mario Sossi ad Aldo Moro. Un contrasto fortissimo, dal momento che si tratta di due universi umani, prima ancora che politici e culturali, diversissimi, opposti. Il distinto e il banale di cui parla a proposito di "Esercizi di stile" Bartezzaghi. Ma è proprio da questo incongruo paragone che possiamo capire il senso profondo di queste immagini che escono dai cassetti per esporsi allo sguardo pubblico. Ha scritto Susan Sontag in "Davanti al dolore degli altri": «Ogni ricordo è individuale, irriproducibile, e muore insieme all'individuo. Quello che si definisce memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto per cui ci si accorda su ciò che è importante e su come sono andate le cose, utilizzando le fotografie per fissare gli eventi nella nostra mente».

Ecco, approfittiamo di queste istantanee destinate a ricordare qualcosa di riservato, persino di intimo, per dire quello che collettivamente abbiamo perso con la morte cruenta di queste persone. Tutti noi, non solo i loro cari: anche se, salvo alcuni, questi volti non li conoscevamo prima di vederli in questa mostra. Il contrasto tra la foto del giovane che prende la mira con la sua P38 e l'istantanea del giovane padre di nome Ezio Tarantelli non potrebbe essere più forte: da un lato, un atto di guerra; dall'altro, la tenerezza del genitore. Accostare, anche solo mentalmente, queste due fotografie ci permette di capire cosa si è perso. Il quotidiano e banale, il distinto e l'eccezionale, sono, e non solo qui, due facce della medesima medaglia. Abbiamo perso tutti qualcosa che queste immagini non ci possono certo restituire. Ma almeno ci aiutano a ricordare; e da ricordi individuali possono, con qualche cautela, diventare anche memoria collettiva.