Il presidente della Figc vuole trasformare il pallone in un sistema economico di sviluppo virtuoso. Sul modello del suo Castel di Sangro, squadra (e cittadina) del miracolo sportivo. I problemi? L’indebitamento e l’incapacità di investire sui ragazzi. Con talenti che si perdono

Ha studiato in un collegio missionario. Dove si stava sui libri e si giocava a calcio. Un segnale, per Gabriele Gravina, presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio. Infatti, oggi la sua missione è governare il calcio. Tra mille intemperie, ci mancherebbe, ma riuscendo a tenere la barra dritta e sempre con lo sguardo fisso verso l’approdo a un calcio più etico, condiviso, legato ai territori, come sistema economico di sviluppo virtuoso. Un po’ come il suo Castel di Sangro, che da presidente è riuscito a portare dalla terza categoria alla serie B.

«Sì, la storia del Castel di Sangro per me è un vanto», racconta Gravina nel suo ufficio della Federazione: «Abbiamo costruito un modello, basato sullo sviluppo del territorio sotto il profilo economico, valorizzando il concetto del turismo sportivo. Quella realtà che aveva cinquemila abitanti, oggi ne ha seimila; non conosce disoccupazione; aveva un albergo e ora ha 54 tra hotel e bed and breakfast. Ed è una delle più belle città dello sport. Ci sono piscine, palestre, campi di calcio, tra l’altro, ultramoderni. Lo stadio, realizzato nel 1996, è ancora di grandissima attualità: non ha pista, contiene diecimila spettatori, ha i tornelli, l’illuminazione ed è ancora lo stesso stadio. Abbiamo un centro federale di tennis, con 34 campi coperti e scoperti. Il tutto in una cittadina che sa benissimo cosa vuol dire abbinare allo sport anche l’arte culinaria. C’è un turismo enogastronomico con il 3 stelle Michelin dello chef Niko Romito».

Oggi Gravina, dopo aver consegnato la sua azienda ai figli ed essersi licenziato dall’insegnamento universitario, fa il presidente a tempo pieno. Oltre a quella per il calcio coltiva anche un’altra grande passione: «L’arte. Che rientra in un concetto molto completo della mia vita – spiega – amo il concetto di bellezza. Mi piace l’idea della conoscenza, della cultura, dell’approfondimento. Alla fine del nostro percorso facciamo la sommatoria di tutti questi elementi. Nel “De senectute” di Cicerone, si dice che l’uomo alla fine è quello che ha costruito, quello che ha amato, quello che ha sognato, quello che ha fatto nella vita. È il patrimonio di ognuno di noi, per cui l’idea di avvicinarmi al mondo dell’arte, della cultura, del lavoro, delle persone deriva proprio da questo».

Lei fa un discorso intellettuale parlando della sua visione del calcio. Però, alla fine, quello che conta è risultato.
«Gli operatori della comunicazione sono spesso più attratti dagli aspetti che alimentano la polemica e da soggetti che hanno voglia di sottolineare solo la negatività. Ritengo che il mondo del calcio sia migliore di quello che vogliono far apparire. E lo vedo quando parliamo, per esempio, della nostra Federazione. L’unica al mondo con la divisione paralimpica e sperimentale di calcio. Abbiamo tremila ragazzi con problemi di attività cognitiva tesserati, fanno un campionato. A guardare una partita di questo torneo, non si nota nessuna differenza: ci si diverte, si batte il cinque, si corre, ci si stanca e non si ha paura di nulla. Le famiglie sono felici, assistono con entusiasmo e partecipano alla gioia dei loro figli o parenti.

E lo stesso vale per tutto quello che noi facciamo nel progetto “Rete!”: prendiamo ragazzi minorenni non accompagnati dai centri di accoglienza e diamo loro la possibilità di partecipare a un campionato di calcio. Qualcuno viene tesserato e oggi gioca nei campionati dilettantistici o anche professionistici. Ci sono poi diverse cose su cui lavoriamo: la scuola, la tutela dei minori, l’informazione, l’educazione, la formazione nelle carceri. Ma perché non ne parliamo? Purtroppo, c’è una dimensione che interessa ai più: quella economica, quella dell’opulenza. Ma riguarda una percentuale minima su un milione e 400 mila tesserati».

L’opulenza riguarda sostanzialmente la Serie A?
«Quando nel mondo del calcio sento dire: “Noi creiamo ricchezza”, mi permetto di dire: “Però anche debiti”. Purtroppo il settore ha un indebitamento che oscilla ormai intorno ai 5 miliardi di euro, quindi c’è una confusione incredibile tra il concetto di crescita e il concetto di sviluppo. La crescita riguarda un valore assoluto. Lo sviluppo implica un concetto relativo basato su valutazioni soggettive. Sviluppare significa “togliere dal viluppo”, quindi crescere tenendo sotto controllo i costi. Altrimenti, se tu cresci, aumentano i costi e, sforando la crescita, tu fallisci».

Però, alla fine, l’opulenza porta in qualche modo alle vittorie, no?
«C’è un’equazione che non è mai vera: chi spende di più, vince di più. Ultimamente non è così. Altrimenti il Paris Saint-Germain avrebbe stravinto negli ultimi anni e non avrebbe vinto il Napoli, che è quello che ha speso un po’ meno rispetto a tutti gli altri. Diciamo che c’è un aspetto che riguarda ogni settore dell’economia di mercato, ovvero la progettualità. Chi ha progettualità, visione e riesce a trasformarle in un qualcosa di reale, riesce anche a centrare risultati importanti. Diversamente, non è che se spendi di più, vinci di più. Molte volte assistiamo a delle situazioni che destano pure grande preoccupazione. Qualcuno, per esempio, è convinto di dover investire più risorse di quante potrebbe per accedere al campionato di categoria superiore, ma poi puntualmente fallisce e quindi, non solo non ottiene la vittoria, ma perde anche tutto quello che aveva in cassa».

La situazione delle serie minori sembra ancora più complessa. I campionati dalla C alla D costano un sacco di soldi e danno ritorni minimi.
«Se si fa riferimento alla massimizzazione del risultato sportivo, è vero. Se si fa invece riferimento a una valorizzazione della vera dimensione del calcio, le serie minori danno tantissimo. Però bisogna anche dire con molta onestà che quello delle serie minori è il mondo del volontariato, il mondo dove le risorse sono veramente scarse. Dovremmo tutelare quel mondo fatto di persone che reggono realtà sul territorio, talvolta di nascosto dalla propria famiglia perché rinunciano a ore di lavoro. E si va incontro a queste persone cercando di creare tutti i presupposti, sotto il profilo normativo, e puntando a coinvolgere anche il territorio. I tifosi vogliono sempre una squadra che vinca soltanto. Ma uno solo vince e tutti gli altri vengono denigrati. Bisogna invece cominciare a diffondere l’idea che il calcio ha delle dimensioni diverse rispetto alla vittoria».

Perché il calcio è così ingovernabile?
«Il calcio è governabile e, secondo me, è governato pure bene. Bisogna non confondere le conflittualità dialettiche tra alcune componenti con l’ingovernabilità. Nel mondo del calcio ci sono sette componenti: arbitri, calciatori, allenatori, dilettanti, professionismo di base, professionismo medio e alto. È complicatissimo far convergere tutti e mettere insieme gli interessi di chi gioca e di chi allena o deve arbitrare. Quindi, è chiaro che ci deve essere necessariamente una dialettica, un confronto e uno scambio di riflessioni. Non è, al contrario, accettabile che questo confronto venga strumentalizzato oppure contaminato da interessi personali, simpatia o antipatia».

Lei parla di 5 miliardi di debito: come si fa a non far implodere il sistema?
«Sì, parlo di debiti. Però bisogna dire anche, con altrettanta fermezza, che c’è chi paga. Perché i debiti bisogna pagarli. Io sono preoccupato per l’indebitamento, perché vorrei aiutare i dirigenti, e mi dispiace che ci sia questa situazione. Ma non bisogna mai dimenticare che ci sono finanziamenti infruttiferi a favore delle proprietà, altrimenti non potrebbero partecipare. Come Federazione andiamo loro incontro, riduciamo i costi, vogliamo che ci sia una visione diversa nell’organizzazione e nella gestione dell’azienda che permetta a questi proprietari di essere più oculati e di immettere meno risorse all’interno del nostro mondo».

Il fatto di porre un freno alle plusvalenze potrebbe essere una via?
«Credo che ogni azienda debba fare plusvalenze, ma bisogna fare quelle giuste. Bisogna evitare le alchimie e puntare alle plusvalenze reali. Perciò serve il patrimonio, costituito dalle infrastrutture, che consente di avere anche uno sviluppo dei settori giovanili. Infrastrutture e settori giovanili sono i due asset che in Italia non abbiamo, rispetto ad altri Paesi. Quindi la criticità di tutto il sistema calcio è un rapporto altissimo tra valore della produzione e costo del lavoro: in aziende di altri comparti oscilla intorno al 30 per cento, in altre realtà calcistiche al 50, in Italia quasi al 90. Siamo completamente fuori rotta

 L’altro problema è che non riusciamo a patrimonializzare. Il patrimonio qual è? Non è il calciatore, che è un bene strumentale. Il patrimonio, appunto, è rappresentato dai settori giovanili. Il circolo virtuoso, allora, è valorizzare i giovani che generano plusvalenze e le infrastrutture che consentono la valorizzazione stessa dei giovani e permettono attività economiche di produzione reale nell’ambito di un’organizzazione. Noi, invece, questo ancora non l’abbiamo capito. Purtroppo».

Perché in Inghilterra si va in campo a 16 anni? E in Italia si deve arrivare a 25?
«Mentre in Inghilterra ci sono l’opportunità, la volontà e la pazienza d’investire sui giovani per farli diventare campioni, da noi si vuole il prodotto già pronto e finito. Non abbiamo la capacità di valorizzare i giovani perché non ci sono i vivai, non ci sono le infrastrutture. I talenti, però, ci sono. Le nazionali giovanili raggiungono sempre risultati di altissimo livello fino all’Under 21 (solo quest’anno abbiamo vinto il Campionato europeo Under 19 e abbiamo conquistato l’argento al Mondiale Under 20). Poi i talenti scompaiono.

Faremo una ricerca per capire, tra tutti questi talenti delle nostre giovanili, quanti in realtà arrivino in nazionale. Abbiamo circa 833 mila ragazzi del settore giovanile scolastico, quindi circa il 20 per cento della popolazione italiana tra i 5 e i 15 anni è tesserata con noi. Di questi, 400 mila fanno i tornei. Uno su cinquemila diventa professionista, uno su 35 mila arriva in nazionale. Tradotto: se prendi il biglietto alla lotteria, hai più probabilità di vincere. Quello che manca al nostro talento è la fantasia, oscurata da un tatticismo esasperato. Anche alle famiglie dovremmo far capire che è importante che i bambini giochino e si divertano».

I diritti televisivi sono una delle più grandi fonti di guadagno per il calcio. Ma non si rischia così che si perda il senso di andare allo stadio?
«Io credo che la forza della Premier League, che viaggia su cifre molto più alte, sia la capacità di fidelizzare i tifosi. Loro hanno fatto sentire, in maniera diretta, i consumatori del prodotto come i protagonisti del gioco del calcio. Da noi, invece, il tifoso è considerato uno spettatore pagante e basta. Quante volte assistiamo a contestazioni da parte dei tifosi, perché molte volte un presidente raddoppia i prezzi in occasione di una gara importante.

La pandemia ha allontanato tanti giovani dal calcio: abbiamo perso 250 mila ragazzi, che per fortuna abbiamo saputo recuperare. Siamo riusciti a riprenderli e li abbiamo rimessi insieme. Inoltre, sono aumentati i tifosi: vuol dire che c’è voglia di partecipare. E dico partecipare, perché questo dev’essere. Il tifoso dev’essere coprotagonista del nostro evento. Quindi, trasparenza e partecipazione. Perché dev’essere un mondo più partecipato rispetto a quello che ogni imprenditore, ogni società sente come suo. E questo, consentitemi, credo che sia proprio uno degli elementi di forza della Premier League. Ma non solo».

I detrattori hanno chiesto le sue dimissioni. Si sente sulla graticola?
«No, assolutamente. Ascolto volentieri i consigli delle persone che sono in buona fede ed è chiaro che il fatto di legare un’attività politica a un risultato sportivo la dice lunga su alcune scelte. Credo molto nei principi della democrazia. Se il mio consiglio federale e se la base elettorale non dovessero avere fiducia nella mia attività politica, andrei via immediatamente. Ma non sono i detrattori che votano e io continuo a lavorare per il bene del calcio italiano. Io devo rispondere alla gente che continua a darmi fiducia, che crede in quello che stiamo facendo. Quando verrà meno questa fiducia, andrò via. Ma fino a quando questa fiducia ci sarà, io andrò avanti per la mia strada».

Tra l’altro, le sue eventuali dimissioni produrrebbero una serie di problemi a cascata.
«Infatti. Proviamo a ipotizzare uno scenario in cui io me ne vada via domani mattina: siamo alla scadenza di un mandato, perché fra un anno e qualche mese si vota. Attualmente la Figc è presente nella giunta del Coni, dove non entrava da tempo, è anche nel comitato esecutivo della Uefa, dove ricopro la carica di vicepresidente, ed è impegnata in una progettualità legata all’organizzazione di Euro 2032. Se mi dimettessi, farei un disastro sotto questo profilo. Quindi, mi chiedo: è un atto di responsabilità? Ha senso?».