Un motto del papà Dino per rivendicare la capacità di estraniarsi. La solitudine creativa, i viaggi, le vacanze e il rapporto tra generazioni. Dialogo a tutto campo con il regista

Marco Risi, regista, sceneggiatore, scrittore, padre, nonno, figlio di, è un po’ come il quartiere Trieste di Roma, dove ha scelto di abitare da qualche anno: raffinato, flemmatico, intellettuale de core.

 

Mentre indugia a guardare i villini freschi di restauro a Piazza Caprera, dove si incontrano neolaureati chiassosi con corona di alloro che brindano al futuro incerto e amanti furtivi che si danno appuntamento proprio qui, alle spalle di quel liceo Giulio Cesare cantato da Antonello Venditti, sorseggia un succo alla pesca e inizia a parlare delle vacanze. «I ricordi più belli sono quelli di ragazzino. Come diceva François Truffaut: mi piacciono gli adolescenti perché gli succede tutto per la prima volta. Negli anni Sessanta trascorrevamo le estati a Tor San Lorenzo, un posto selvaggio vicino ad Anzio: il nostro tucul, una casa di paglia, non aveva corrente elettrica né acqua. Già allora i compagni di avventura miei e di mio fratello Claudio erano Carlo ed Enrico Vanzina assieme a Massimo Gualdi e Paolo Lucernari. La sera si andava all’arena per vedere i film: quello che ci spaventò di più fu “La maschera di cera” con un giovanissimo Charles Bronson. Una volta tornati faticammo a prendere sonno. Le giornate al mare erano scandite dalle canzoni di Edoardo Vianello, Michele, Mina che arrivavano dallo stabilimento della Sor’Emilia. Poi ci fu il periodo di Castiglioncello e della prima fidanzatina, Flaminia Sanjust, avevo 12 anni e lei 14. Negli anni Settanta, i miei genitori comprarono la casa al Circeo, dove vado ancora oggi: 91 scalini per arrivare al mare. Sei isolato dal mondo. D’inverno si saliva a sciare al Terminillo, dove mi ruppi una gamba e papà, che era laureato in medicina, si precipitò a soccorrermi, ma anche in Svizzera dove vivono ancora i parenti di mia madre, Claudia Mosca. Ci torno spesso con i ragazzi. E poi il lungo periodo di Todi, dove ho sposato Francesca (D’Aloja, attrice e scrittrice con cui ha condiviso quattordici anni di vita, madre del figlio Tano, 30 anni, ndr), assieme agli amici e colleghi Enzo Siciliano, Bernardo Bertolucci, Guido Torlonia, Marco Tullio Giordana, spesso nostro ospite. Una vacanza che mi torna in mente con particolare nostalgia fu quella alle isole Canarie, durante il periodo natalizio. Io, mamma e papà. L’unica volta di noi tre insieme. Le nostre valigie andarono perse e mamma, accanita lettrice di gialli, ci prestò il libro che aveva con sé in aereo. Ecco, quella fu la prima volta che mi sentii trattato da adulto. Avevo undici anni. Tra i viaggi più divertenti della mia gioventù c’è sicuramente quello con la scuola (il San Giuseppe de Merode in Piazza di Spagna, ndr) nel 1967: un tour fra Canada e Stati Uniti in un momento storico di certo poco tranquillo visto che i disordini erano all’ordine del giorno. L’organizzatore ci portò in un hotel di Pittsburgh che era dentro un bordello».

 

Una comitiva di burloni. Eppure si fa fatica oggi a immaginare questo elegante e altissimo signore di 72 anni come un tipo da pacche sulla spalla e battute a raffica. «Sto bene anche da solo e penso che solitudine ed estro creativo possano convivere felicemente. E poi l’artista è solo per definizione. Quando scrive, dipinge, compone. Picasso non lavorava in coppia e neppure Caravaggio così come Mozart o Philip Roth. Sartre diceva che all’innamoramento e quindi al rimbambimento che ne consegue, si poteva dedicare al massimo una settimana per poi tornare al proprio lavoro. Mio padre Dino, che di solitudine se ne intendeva, ha trascorso gli ultimi trent’anni della sua vita in un residence, solo, che non vuol dire disperato, semplicemente vedeva le persone che aveva voglia di vedere quando ne aveva voglia. Un’attitudine che forse mi ha trasmesso. Ricordo che un giorno mio zio Nelo (poeta e regista fratello di Dino, scomparso nel 2015, ndr), dopo aver visto un mio film in televisione mi telefonò per dirmi che tutti i miei lavori parlavano di persone solitarie. Credo sia abbastanza vero. Lo era Jerry Calà in “Vado a vivere da solo” oppure Luca Argentero in “Cha cha cha” e ancora i ragazzi di “Mery per sempre” o le tre donne abbandonate dai mariti protagoniste di “Tre mogli”».

 

Da qui la celebre frase di Dino «se fossi a casa vostra andrei a casa mia» che Marco ha apposto come un mantra sul suo profilo WhatsApp. «Era un pretesto per dileguarsi quando c’erano persone che cominciavano a diventare noiose. Se la serata virava sul moscio, si alzava dalla sedia o dalla poltrona e pronunciava le fatidiche parole, ereditate dallo zio Antonio. Capita l’antifona?».

 

Nella famiglia Risi, tutta declinata al maschile, l’ultima arrivata è Matilda, 8 mesi, figlia di Andrea, 35 anni, nato dalla relazione con Eliana Miglio. L’unico che non ha seguito il richiamo del cinema. «Ha avuto successo come imprenditore e sta con la stessa donna da quando andavano a scuola. Mio padre pagava i nipoti per non farsi chiamare nonno, io dedico più tempo ai ragazzi, li abbraccio e mi lascio abbracciare, dispenso consigli se richiesti. Del resto, papà girava due film all’anno, io uno ogni quattro anni. In generale c’era poco, mamma c’era di più, la Gina c’era sempre».

 

Gina era la tata di casa Risi: lombarda, comunista, con una certa antipatia per gli americani. «Diceva che non erano mai stati sulla luna ma avevano ricostruito tutto nei teatri di posa. Sono andata a trovarla con i miei figli due mesi prima che morisse. Era finita in un ospizio e si lamentava». E proprio in un ospizio è ambientato il prossimo film di Marco Risi, co-sceneggiato con Riccardo de Torrebruna e Francesco Frangipane, che uscirà nelle sale in autunno prodotto da Domenico Procacci e Rai Cinema. Nel cast, uno stuolo di mostri sacri del teatro italiano: da Massimo De Francovich a Eros Pagni, da Erica Blanc a Elena Cotta, da Maurizio Micheli ad Ariella Reggio. E poi volti giovani come Alessandro Fella, Roberto Gudese, Lucia Rossi.

 

«Sono più di dieci anni che giro intorno al tema del film, l’incontro tra due generazioni. È la storia di un ragazzo che una sera ne combina una grossa: invece che mandarlo in galera, lo spediscono in una casa di riposo per un anno intero. Lì conosce un vecchio - Dino, non a caso – sarcastico, scorbutico, cinico ma anche attento e stimolante. Fra i due nasce un’amicizia che porta verso qualcosa che, in questo Paese, non è permesso. Il titolo del film è piuttosto insolito: “Il punto di rugiada” ovvero quando la temperatura esterna si scontra con quella interna e mi è stato suggerito da un anziano avventore del ristorante “Al Padovano”, che frequento solitamente». Ma, una grande vecchia c’è pure in casa Risi: Edith Bruck, scrittrice ebrea di origini ungheresi sopravvissuta ad Auschwitz, vedova di Nelo. «Vado a trovarla quasi tutte le settimane. Ha 92 anni e una testa brillante. Parliamo di affetti, di vita, di politica».

 

Ecco, la politica, capitolo speculare al suo cinema di impegno civile come ne “Il muro di gomma”, su soggetto del compianto Andrea Purgatori che cofirmò la sceneggiatura. «In passato ho votato anche per Cicciolina e il suo Partito dell’Amore. Oggi confesso di essere parecchio disorientato: mi piacerebbe avere una salda, forte appartenenza a sinistra e sono spesso tentato di astenermi. Ma non si fa. Se penso ai miei film, il più politico è stato “Cha Cha Cha” (uscito nel 2013 e interpretato da Luca Argentero, Eva Herzigova, Claudio Amendola, ndr) mix di faccendieri, intrighi e sottobosco in una Roma decadente».

 

S’è fatta una certa, come si dice a Roma. I tavoli dei locali si riempiono di clienti. Il sole di agosto lascia il posto alla luna che sbuca tra le chiome degli alberi secolari a Villa Torlonia. Sentinelle della movida, rombante di moto e di chiacchiere.

 

Marco Risi è pronto per raggiungere la famiglia al Circeo, nella villa disegnata da Michele Busiri Vici, l’architetto della borghesia pariolina che firmò pure il paesaggio urbano della Costa Smeralda nei primi anni Sessanta. Alle spalle, la montagna. Davanti, il mare. Una casa candida. Piena di curve. Come quelle affrontate con spavalderia da Bruno Cortona-Vittorio Gassman nel film “Il sorpasso”. «Eh già, le curve. Quando incontrai papa Francesco a casa di mia zia Edith, finimmo col parlare di cinema. Gli chiesi cosa ricordasse de “Il sorpasso”. E lui rispose sorridendo: “Tutte quelle curve”. All’inizio non capii. Poi qualcuno mi spiegò che, in Argentina, le curve non esistono».