La delega del governo Meloni favorisce proprietari di negozi, titolari di partite Iva e di rendite finanziarie. Ma protegge chi, tra commercianti e artigiani, non paga le imposte. Nel complesso, perde la solidarietà sociale e vincono gli interessi di categoria

Ha dell’incredibile la mutazione che ha subito la riforma fiscale, partita nel ’21 per favorire l’equità sociale, stroncata lo scorso settembre con la caduta del governo Draghi, ha ripreso il suo corso con quello Meloni, per giungere, nella sua forma di Ddl delega, all’approvazione di Senato e Camera: il testo assume un aspetto corporativo, in cui a perdere è la solidarietà sociale e a vincere sono le categorie e i relativi interessi.

Il testo della legge delega sul Fisco è stato scritto per stimolare la crescita economica e la natalità, non scontenta nessuno: c’è un pensiero per i promotori finanziari, un altro per i tenutari di rendite immobiliari, in prospettiva ci sarà un grande regalo agli artigiani, dacché il governo Meloni ha addirittura deciso di rinunciare alla lotta all’evasione fiscale, scrivendolo nero su bianco nella revisione del Pnrr inviata a Bruxelles: fra le 144 modifiche al Pnrr c’è infatti la richiesta di stoppare la riduzione del tax gap di 2,7 punti, dal 18,5 al 15,8 per cento, che avrebbe permesso un recupero dell’evaso di 15 miliardi l’anno.

La prima grande rivoluzione è il superamento della distinzione tra redditi di capitale e redditi diversi di natura finanziaria prevista dall’articolo 5 della riforma. Di questo tema si parla da mesi: già all’epoca della riforma Draghi era stato un pallino di Luigi Marattin, responsabile economico di Italia Viva. Ora, tra i redditi di capitale rientrano interessi e dividendi, mentre i redditi diversi riguardano le plusvalenze, ovvero i risultati positivi che una persona fisica ottiene tra il prezzo di acquisto e quello di vendita di un prodotto finanziario (un’azione, un warrant, un’obbligazione convertibile e così via). La legge delega prevede di abolire la distinzione tra redditi di capitale e redditi diversi, introducendo un’unica categoria reddituale con un’aliquota al 26 per cento sul risultato netto complessivo di tutti i redditi di natura finanziaria realizzati nell’anno, ottenuto sommando algebricamente i redditi finanziari positivi con quelli negativi.

C’è un però. Già nella passata legislatura il Dipartimento delle Finanze aveva evidenziato che una simile modifica poteva essere rischiosa per la tenuta dei conti pubblici perché «è plausibile ritenere, in via prudenziale, che la compensabilità immediata dello stock di perdite in conto capitale potrebbe ridurre in misura significativa o annullare il gettito attualmente derivante dai redditi finanziari». Ecco perché il governo Draghi non aveva dato il via libera al superamento della distinzione tra redditi di capitali e redditi diversi.

E c’è anche un’altra motivazione: ovvero il rischio di aprire la strada a quell’industria finanziaria capace di generare minusvalenze fittizie al solo scopo di abbattere l’imposta: il cosiddetto tax straddle, una forma di elusione, che consiste nel vendere e ricomprare gli stessi titoli, simultaneamente e allo stesso prezzo, per realizzare minusvalenze utili ad abbattere l’imposta su interessi e dividendi, lasciando invariato il valore del suo portafoglio.

Attenzione viene data alle partite Iva con l’introduzione del concordato preventivo biennale, che ruota attorno al contraddittorio preventivo tra il Fisco: quest’ultimo presenterà ai contribuenti in odore di evasione (5.000 gli autonomi interessati) una proposta di tassazione biennale fondata sul reddito presunto. Si tratta di un sistema già sperimentato (ma senza successo) da Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia di epoca berlusconiana. L’idea iniziale era quella di definire l’entità dell’ammontare dovuto al Fisco da parte di ciascun lavoratore autonomo basandosi sui dati degli Indicatori sintetici di affidabilità, gli Isa, uno strumento nelle mani dell’Agenzia delle Entrate che rappresenta una gigantesca evoluzione rispetto agli Studi di Settore, perché attingendo alle informazioni di svariate banche dati - le fatturazioni elettroniche, le liquidazioni periodiche Iva, gli scontrini telematici - elaborate dalla Sose, Soluzioni per il Sistema Economico Spa, una società pubblica molto avanzata che si occupa di analisi di dati, sarebbe possibile stimare il giro d’affari di ogni singolo contribuente.

Il problema è che in un altro punto della delega fiscale sembra che gli indicatori Isa saranno superati. Dunque, sta prendendo forma la possibilità che il contraddittorio diventi una trattativa pressoché al buio, se si dovesse togliere all’Agenzia delle Entrate la possibilità di arrivare al negoziato con informazioni precise. Che gli Isa siano destinati a cambiare, del resto, è stato scritto nel decreto Pa2 con cui la Sose sarà unificata a Sogei. Da qualche settimana Stefano Antonio Sernia, l’amministratore delegato della Sose, è stato sostituito da Cristiano Cannarsa, che è anche amministratore delegato di Sogei. Il rischio che i metodi burocratici della seconda società, finiscano per influenzare negativamente la Sose, da sempre una società pubblica che ha spiccato per innovatività e alti livelli di produttività.

Insomma, se si andrà verso un concordato preventivo al buio, a giovarsene saranno sicuramente quei piccoli evasori, che stanno tanto a cuore alla premier Giorgia Meloni, che ha definito «pizzo di Stato» la lotta all’evasione fiscale dei piccoli commercianti e artigiani. Un modo per arginare le anomalie ci sarebbe: sanzioni durissime per chi sgarra. Ma al momento non sono previste.

Attenzione riservata anche ai proprietari di rendite immobiliari con l’estensione della cedolare secca sugli affitti ai negozi. Il governo ritiene equo estendere questo incentivo all’emersione, finora riservato alle abitazioni, anche ai proprietari di immobili a uso commerciale. La cedolare secca, introdotta nel 2011, prevede un’unica aliquota di tassazione, al 21 per cento - che scende al 10 per cento per i comuni in cui c’è carenza di disponibilità abitativa come Roma, Milano, Torino e Napoli -, sul reddito generato dall’affitto di un immobile. Chi la sfrutta è esente dalle imposte di registro e di bollo per la registrazione dei contratti di affitto e non ci paga l’Irpef.

Tra i suoi obiettivi, la cedolare secca aveva quello di ridurre l’evasione fiscale degli affitti, incentivando i proprietari che affittavano in nero a regolarizzarsi: in realtà la relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva pubblicata dal ministero dell’Economia e delle Finanze nel 2022 dice che il valore dell’evasione degli affitti si attesta attorno ai 490 milioni di euro. Ora, è parecchio improbabile che un commerciante o un imprenditore accetti di pagare l’affitto in nero, dal momento che si tratta di una spesa che va in detrazione fiscale. Quindi, perché estendere la cedolare secca al 21 per cento ai proprietari che affittano botteghe? Di sicuro i possessori di ampi patrimoni immobiliari, specialmente nelle grandi città, come Milano e Roma, ringraziano. Perché loro, che hanno il capitale e l'hanno investito per acquistare negozi saranno tassati meno chi quel capitale non ce l’ha e vive del suo lavoro.

Per le imprese si va verso la riduzione dell’Ires. All’Ires ordinaria del 24 per cento si affiancherà una ridotta aliquota per le imprese che realizzano investimenti in beni strumentali innovativi o che assumono nuovo personale, dando seguito al leitmotiv caro al governo: chi assume e investe paga meno.

Infine un pensiero per i lavoratori dipendenti, ai quali non è possibile applicare la flat tax, riservata agli autonomi, che costa alle casse pubbliche una perdita stimata di 58 miliardi di mancato gettito. Se la flat tax fosse stata applicata (per un principio di equità) anche ai dipendenti, lo Stato avrebbe dovuto dire addio a 80 miliardi di contributi. Si è quindi pensato di puntare su detassazione delle tredicesime, straordinari, fringe benefit per i redditi più bassi, mentre per i premi di produttività si prevede una riduzione dell’Ires per le imprese con una partecipazione dei dipendenti agli utili. Si tratta di una misura contestabile dalla Ragioneria di Stato: Biagio Mazzotta, ragioniere generale dello Stato, già messo nel mirino di Palazzo Chigi, dice che la detassazione di straordinari e tredicesime dovrà essere in qualche modo coperta con altre entrate fiscali, a meno di non voler continuare a viaggiare in deficit.