I genitori della campionessa paralimpica si sono trovati ad affrontare la malattia della figlia e le sue conseguenze senza sostegni. Ora, con la loro associazione, aiutano chi vive la stessa esperienza attraverso lo sport. «Non ci sentiamo speciali, ma fortunati»

Beatrice Maria Adelaide Marzia Vio Grandis è un’atleta, campionessa paralimpica di fioretto e da poco tempo dottoressa in Comunicazione e Affari internazionali. Abbiamo tutti imparato a conoscerla con un nome che le calza a pennello: Bebe. Corto, essenziale, divertente. È considerata un simbolo contagioso di tenacia ed è sicuramente circondata da un nucleo familiare che ha contribuito a tenere accese le sue doti innate. La positività, l’inclusione e il coraggio non sono solo slogan per la sua famiglia, ma fili tesi per unire persone con esperienze traumatiche e aiutarle a non sentirsi sole.

Proprio per questo, i genitori Teresa Grandis e Ruggero Vio hanno fondato l’Associazione Art4Sport Onlus, per migliorare la qualità della vita di ragazzi portatori di protesi di arto e quella delle loro famiglie. E assieme a Bebe promuovono le attività che riguardano il mondo paralimpico e l’inclusione sotto il movimento WEmbrace, di cui fanno parte, e con i “WEmbrace Games”, un grande evento sportivo ispirato ai vecchi “Giochi senza frontiere” che quest’anno si è svolto il 12 giugno allo Stadio dei Marmi di Roma. Capitano d’eccezione, Francesco Totti; e poi iniziative come “WEmbrace Sport”, un momento che riunisce i campioni delle nazionali olimpiche e paralimpiche di tutto il mondo, e infine i “WEmbrace Awards” in cui si premiano le storie di inclusione più significative dell’anno.

Quando Bebe ha dovuto affrontare la meningite, nel 2008, aveva undici anni e la conseguente amputazione degli arti, superiori prima e inferiori poi, ha stravolto la sua vita. Ma non solo. «Fare squadra è il nostro stile di vita. Non siamo invincibili o anormali, siamo crollati anche noi. Però abbiamo pensato che c’è un tempo per cedere e uno per reagire. Si impara senza un manuale, ma solo per sopravvivenza», racconta Teresa.

Non c’è stata scelta, anche per questo ha interrotto il suo lavoro. Faceva la restauratrice di mobili: «Ho ancora due comodini lasciati a metà da quel giorno. Eravamo una classica famiglia, tutti uniti attorno al tavolo guardando un film la domenica sera, mangiando una pizza, occupandoci di cose normali. Quando è mancato da casa un componente, per così tanto tempo, abbiamo perso l’equilibrio e gli altri due figli, Niccolò e Maria Sole, sono stati affidati spesso a degli amici. Ma a parte la rete di solidarietà degli amici, appunto, nessuno ci ha insegnato come reagire; non abbiamo avuto nessuno in grado di aiutarci.

Perciò la nostra associazione offre ai ragazzi che vivono un trauma come questo e alle loro famiglie un sostegno per riprendere in mano la loro vita, attraverso lo sport. Aiutiamo 42 ragazzi dai sei anni in su, alcuni dei quali stanno anche provando a qualificarsi alle Paralimpiadi di Parigi 2024.

Per esempio, quando Bebe voleva riprendere a fare scherma, subito dopo le amputazioni, il maestro paralimpico ci disse che ci voleva polso e ci volevano dita: proprio quello che mancava a lei. Ruggero, assieme ai tecnici ortopedici, si è messo a studiare una protesi adatta, perché era senza braccio armato. Lo sport paralimpico era poco conosciuto fino a Londra 2012, ma si può fare ed è un mondo che crea dipendenza per le forti emozioni che il gesto paralimpico ti dà. Non ci sentiamo speciali, ma solo fortunati: Bebe aveva il 97 per cento di possibilità di morire».