Il padre della cancellatura apre le porte della sua casa milanese. A 86 anni, è un uomo in movimento. «Se un artista lavora con piacere, può dare gioia agli altri. Ma se deve sgomitare per il successo, no. C’è troppa omologazione. Molta apparenza, poca sostanza»

Il baretto in via Martiri Oscuri, complici i 35 gradi di temperatura e l’umidità, appare come una visione. Alla barista che viene in soccorso con una bibita fresca chiediamo dove sia il civico cinque. «Andate da Isgrò? Vi accompagno io». Siamo a Milano, a due passi da viale Monza e dalla fermata della metropolitana Rovereto, in quello che di recente è stato ribattezzato NoLo (Nord di Loreto), un tempo quartiere di artigiani e di emigrati dal Sud, oggi meta di street artist e creativi. «Qui tutti conoscono Emilio Isgrò, è l’anima del posto», continua la ragazza. Ci lascia davanti a un cancello a vetri, accanto a quello rosso di una scuola media. Dopo aver suonato, ci si ritrova in un cortile interno con edere rampicanti e vasi di kumquat.

 

A quel punto, una delle assistenti del padre indiscusso della cancellatura apre un’altra porta e subito dopo appare lui, pantaloncini corti e maglietta, occhi vispi e celesti come il divano su cui è seduto. «Scusi se non mi alzo, ho caldo, ma è anche vero che sono pigro», dice porgendo la mano. «Quando arrivai a Milano dalla Sicilia per la prima volta, era il 4 novembre del 1956. C’era il sole e dal cielo illuminava la nebbia». Da allora, tante cose sono successe ne “L’avventurosa vita di Emilio Isgrò”, raccontata anche nell’omonimo libro che nel 1975 fu candidato al Premio Strega, «e tante altre devono ancora accadere», aggiunge lui ridendo. «Per tutto il mese di agosto resterò qui a Milano, poi non sarò mai a casa».

 

Andrà, infatti, al Festivalfilosofia a Carpi, dove, dal 16 settembre prossimo, sotto il loggiato di Palazzo dei Pio sarà ospitata la mostra “Sillogismo del cavallo” con 48 celebri cancellature create dagli anni Sessanta a oggi. Il suo cancellare «è un modo per creare e recuperare gli spessori profondi del mondo, la verità e la possibilità della parola che esiste». Continuerà in autunno a Roma, al Maxxi, con la “Cancellazione dei Dieci Comandamenti”, e poi a Milano, a Venezia «e in altri posti ancora».

 

Isgrò, 86 anni a ottobre, è un uomo in movimento. Tutti lo vogliono. «Ma non mi sono mai montato la testa perché resto con orgoglio quel ragazzo curioso che lasciò Barcellona Pozzo di Gotto per cercare lavoro ed esperienze altrove». Di recente, ha ricevuto la cittadinanza onoraria di San Pier Niceto, il paesino del Messinese dove sono nati i suoi nonni e suo padre.

 

Che famiglia è stata la sua?
«Bellissima a suo modo, il simbolo di una contraddizione tipica siciliana, dove puoi trovare tutto e il contrario di tutto. Mio padre Giuseppe, detto Peppino, faceva l’ebanista per necessità, suonava il sassofono e il clarinetto per passione, persino nel Knie, il circo nazionale svizzero. Compose un valzer tirolese per il quale noi figli riceviamo regolarmente i diritti d’autore. Mia madre Elisa era casalinga, autorevole e molto attenta. Il venerdì santo seguiva la varetta dell’Addolorata, ma votava per il Pci. Senza la sua intelligenza e la sua determinazione, la nostra famiglia sarebbe franata».

 

Da una famiglia originaria a un’altra, proprio qui a Milano, con Scilla Velati, giornalista di moda e arredamento.
«La prima volta che ci siamo visti e parlati è stata all’Hotel Diana per un premio di fotografia. Era il 1981 e da allora non ci siamo più lasciati. Insieme gestiamo la fondazione che porta il mio nome, visitabile gratuitamente su appuntamento».

È al primo piano dell’edificio in cui ci troviamo ed è piena di opere di Isgrò, alcune delle quali resteranno alla città di Milano. «Attendono di diventare soci dei risultati da parte di provinciali scoperti», si legge nella sua prima, minuscola cancellatura, un frammento di quel Gazzettino per il quale lavorò come responsabile della terza pagina e dei supplementi culturali, nel periodo della sua permanenza a Venezia tra il 1960 e il 1967.

«Prima ero stato all’Università Cattolica, ma nel frattempo scrivevo poesie, poi pubblicate dall’editore Schwarz nel libro “Fiere del Sud”».

Il primo di una lunga serie, fino al recente “Sì alla notte”, uscito per Guanda. Sulla scalinata che porta al piano della fondazione è un susseguirsi di manifesti che testimoniano il suo lavoro di scrittura teatrale: da “La veglia di Bach” per il Teatro alla Scala a “L’Orestea di Gibellina”. Senza dimenticare, poi, i poster delle sue mostre in giro per il mondo.

 

Artista concettuale, pittore, poeta, scrittore, drammaturgo e regista: lei come si definisce?
«La massima ambizione che hanno gli artisti è di essere definiti con il loro nome e cognome. Se uno è Buonarroti, vorrebbe essere Michelangelo; se uno è Isgrò, vorrebbe essere Emilio. Ma ancora non sono arrivato a tanto. Speriamo in futuro». (Ride, ndr).

 

Avrebbe mai pensato di arrivare dove è oggi?
«Avevo pensato di arrivare da qualche parte, ma, avendo fondato la mia arte sul piacere personale, l’unica cosa che potevo fare era aspettare. Se un artista fa le cose con piacere, può dare a sua volta piacere. Se è votato unicamente al successo e deve sgomitare per averlo, che gioia vuole che dia agli altri? Avrà sempre la faccia triste. Il silenzio che per un lungo periodo mi ha circondato mi ha consentito di lavorare tranquillo e di sfuggire a un certo circo che oggi purtroppo l’arte deve affrontare. Sono troppo pigro per questo. Amo lavorare al chiuso, tranquillo, o all’aperto, come nel caso degli spettacoli a Gibellina. Preferisco un’arte che rifletta e non che appaia semplicemente».

 

A che punto sta l’arte oggi?
«C’è una certa sfasatura. Dal punto di vista conoscitivo e qualitativo, l’arte globale non fa qualità, ma quantità e basta. Un continuo incalzare delle proposte non consente di valutare le capacità effettive di un artista. Che sono quelle di toccare, sì, il portafoglio della buona clientela, ma anche la sensibilità. Da questo punto di vista, l’arte mi pare bloccata».

 

Che cosa significa per lei?
«È una forma di educazione. Si parla di educazione al bello, ma la danno gli artisti decoratori. Occorre un’educazione alla bellezza accettando le condizioni umane. Non so quanto l’arte contemporanea faccia questo, tranne eccezioni. Abbiamo un’arte che da sessant’anni è sempre uguale. Lo dico con il massimo rispetto, ma ho il sospetto che da Andy Warhol e Jeff Koons la musica sia sempre la stessa».

 

Anche tra i giovani?
«Ho un buon rapporto con loro, ma vivono una situazione molto più difficile di quella che c’era quando ho cominciato io. Se non sei omologato, non arrivi, non ti considerano. Alcuni artisti sono altamente quotati per motivi ignoti; c’è tanta apparenza, poca ricerca e poca sostanza. Voglio sperare che la situazione cambierà. Quella Intelligenza artificiale che tutti temono non dev’essere, in realtà, temuta. Oggi ha più consapevolezza un robot che un artista. E io stesso faccio una certa fatica a venirne fuori».

 

Da che cosa viene ostacolata questa consapevolezza?
«Dalle continue distrazioni di una società mediatica sempre più affannata. L’arte contemporanea soffre di una certa indifferenza, alimentata negli anni passati, quando la cultura televisiva di un certo tipo surclassava tutte le altre culture. Si pensi all’ultimo e increscioso episodio che ha visto distrutta l’opera di Michelangelo Pistoletto a Napoli, un oltraggio a un grande artista. C’è stata una mutazione nel sentire e nel vivere di tutti noi. Per questa ragione, un Papa come quello attuale, che invita gli artisti a conservare la propria autonomia, senza cadere nelle trappole luccicanti della pura confezione, è molto apprezzato dagli spiriti laici».

 

C’era anche lei, lo scorso giugno, tra gli oltre 200 artisti e personaggi della cultura che hanno incontrato papa Francesco nella Cappella Sistina per i 50 anni della Collezione d’arte moderna e contemporanea dei Musei vaticani. Com’è andata?
«È stato un incontro emozionante. “Quando il talento vi assiste – ha detto il Papa – portate alla luce l’inedito, arricchite il mondo di una realtà nuova”. Parole che condivido appieno. Uno così mi fa quasi venire il dubbio che Dio esista».

 

Con l’età si diventa più saggi?
«Ho i miei anni e voglio che si vedano. L’età non ti dà più credibilità, ma effettivamente più saggezza, perché certe cose le hai sperimentate e vissute».

 

Come le piacerebbe essere ricordato?
«Come un cancellatore di cose morte e un suscitatore di cose vive».