Non vanno demonizzati gli effetti della Ia, sostiene l’economista Daron Acemoglu, a patto di dirigerne l’utilizzo. Perché esiste un’automazione positiva e una negativa

«Non preoccupatevi: la tecnologia ha sempre creato più lavori di quanti ne abbia distrutti, con l’automazione». Quante volte abbiamo sentito ripetere questo mantra. Ancora di più nell’ultimo periodo, con l’avanzata dell’intelligenza artificiale.

 

Ebbene, quella frase è un falso ideologico. Le evidenze sono numerose: «È un’illusione che la tecnologia, l’intelligenza artificiale (Ia) in questo caso, possa creare in automatico vantaggi per tutti i ceti sociali», dice Daron Acemoglu, uno dei più noti economisti al mondo (presso il Mit di Boston), autore con il suo collega Simon Johnson di “Power Progress”. Una monumentale opera che uscirà in autunno anche in Italia. Attraverso una corposa documentazione storica, analizza gli effetti della tecnologia sulla società, dalla preistoria a oggi.

 

Ecco: il solo periodo in cui, davvero, la tecnologia ha contribuito a migliorare le condizioni di tutti – invece del contrario – è compreso nei «miracolosi trent’anni» tra il dopoguerra e fine anni ’70, in Occidente. La prima rivoluzione industriale è stato invece un disastro: la maggior parte delle persone ha visto le condizioni di vita peggiorare, in città. Anche quelle sanitarie. Mai nella storia – tra l’altro – si è visto uno sfruttamento così terribile dei bambini: al buio, nelle miniere.

 

«L’Ia può portare grandi benefici all’umanità. Sono colpito dal modo in cui comincia a essere usata per studiare le proteine e così debellare malattie ora incurabili», dice Acemoglu. Il problema è l’attuale tendenza di utilizzo: «Viene sempre più venduta dalle aziende tech come strumento per fare automazione spicciola; tagli di costi e di posti di lavoro». L’Ia generativa tipo ChatGpt è l’esempio principale, in grado di produrre testi, immagini analoghi a quelli finora prerogativa di professionisti umani.

 

Preoccupazione condivisa anche dall’Ocse (Organizzazione internazionale per la cooperazione e lo sviluppo economico), nel rapporto sul lavoro uscito a luglio scorso. «È il primo studio che indaga sul campo, su migliaia di aziende e lavoratori nel mondo, l’impatto dell’Ia», spiega Stefano Scarpetta, a capo delle policy per il lavoro nell’Ocse. Da una parte, emerge che per ora l’impatto è limitato e positivo (migliora produttività e benessere lavoratori, non ci sono stati licenziamenti); dall’altra «siamo preoccupati, soprattutto per come comincia a essere usata negli Usa l’Ia generativa, per automatizzare lavoro d’ufficio di persone con poca esperienza o bassa qualifica», dice Scarpetta. La stima Ocse è che il 30,1 per cento dei posti di lavoro in Italia (27 per cento nei Paesi Ocse) sono a rischio automazione nei prossimi dieci anni.

 

Le analisi di Power and Progress dimostrano che, nella storia, il problema non è l’automazione di per sé. Ma è quella “cattiva”, fatta al solo scopo di risparmiare, senza un reale aumento di valore per l’economia, la società, il consumatore. Come con le postazioni di spesa self service al supermercato; oppure la voce o la chat automatizzata che sostituisce gli addetti ai call center. Le evidenze raccolte dagli autori dicono invece che servono due condizioni perché la tecnologia porti benessere condiviso alla popolazione. Primo: deve creare nuovi compiti e settori lavorativi (più che compensando i lavori che automatizza). Secondo: ci deve essere un rapporto di forza equilibrato tra capitale e lavoro, perché la maggiore produttività ottenuta con la tecnologia non finisca tutte nelle tasche degli azionisti aziendali. Proprio come avvenuto nel trentennio magico, a partire dalla produzione di auto in massa (negli Usa ed Europa); con le lotte sindacali e con una politica attenta al welfare, scrivono gli autori. Il benessere di tutti è migliorato, anche quello di lavoratori a bassa qualifica. L’aspettativa di vita è aumentata di 25 anni in Occidente. Fattori positivi che, notano gli autori, si sono cominciati a perdere con la rivoluzione digitale dei computer e di Internet, dagli anni ’80, e con le politiche ultra-liberiste.

 

E adesso si rischia il colpo finale, con l’Ia, a quel progetto di benessere diffuso. «Sono preoccupato. Se continuiamo nel solco che stiamo già tracciando con l’Ia avremo un futuro dove la massa dei lavoratori avrà un salario di sussistenza, come nella Londra di inizi ’800. E il prodotto intellettuale, di giornalisti, artisti, pubblicitari sarà sminuito dall’automazione. Ci perderemmo tutti, sia come lavoratori sia come fruitori di contenuti», dice Acemoglu.

 

L’ultima parte di Power and Progress è dedicata a una lunga serie di proposte. Incentivi governativi dovrebbero favorire un’automazione migliore, quella che supporta (e non sostituisce) il lavoratore. «Un primo esempio positivo è quello registrato da uno studio di Stanford University (aprile 2023) su un grosso call center, dove l’Ia aiutava soltanto a dare risposte migliori con il risultato di una aumentata produttività soprattutto degli addetti con minore esperienza», dice Acemoglu. Un altro suggerimento è cambiare il sistema fiscale in modo da tassare di meno il reddito da lavoro rispetto alla rendita finanziaria (all’opposto di quanto avviene ora; lo propone anche il noto economista Thomas Piketty). L’Ocse suggerisce inoltre ai governi di incentivare la formazione dei lavoratori per l’era dell’Ia e supportare i salari più bassi; ma anche di assicurarsi che l’Ia serva a creare un mercato del lavoro inclusivo; invece dell’opposto. «La buona notizia è che ancora possibile farlo», dice Acemoglu. La cattiva è che l’attenzione dei governi al problema sociale è ancora molto bassa. In Italia, pressocché nulla.