La sfida della IA investe anche il settore pubblico. Ma le ricadute sono sempre sulle persone e quindi i dati vanno elaborati con la discrezionalità che rende ogni soluzione quella “preferibile”

Tra le grandi sfide del nostro tempo, certamente quella dell’intelligenza artificiale (Ia) è una delle maggiori. Non a caso, essa impegna da tempo, oltre che le tecnocrazie private e pubbliche, anche studiosi (dell’etica, della morale, della politica) e intellettuali. Del resto, nessuna scienza sociale potrebbe seriamente rivendicare un’esclusività di pronunciamento su un tema di questa portata.

 

L’Ia (è dato di fatto acquisito, non possibilità ipotetica) risulta applicabile a molti campi dell’agire umano. Ivi compreso lo spazio della «decisione pubblica», ai vari livelli di governo, tanto ove essa afferisca alla dimensione della politica quanto ove attenga all’azione degli uffici della Pubblica Amministrazione. Si tratta – è bene non solo dirlo, ma anche ribadirlo – di uno dei nodi di fondo che rappresentano probabilmente la sfida principale. Perché l’Ia è certamente un moltiplicatore e un aggregatore di informazioni, e quindi di conoscenza, ma il vero fattore dirimente del nostro tempo è la decisione. Cioè la determinazione volitiva, quale esito finale di un processo elaborativo, che ha l’effetto di innovare lo stato delle cose, mutando l’assetto preesistente in nuovo scenario. La decisione presuppone, oltre alla disponibilità dell’informazione (il pensiero corre a Luigi Einaudi), l’elaborazione del patrimonio conoscitivo disponibile. Questa elaborazione può significare ed essere (lo è stato, nel corso della Storia) molte cose, alternative fra loro: assemblaggio meccanico, semplice disposizione in sequenza logicamente non incongruente, sintesi fine a sé stessa, sintesi orientata alla funzionalizzazione e molto altro ancora. La diversità radicale di questi schemi conduce più prevedibilmente a decisioni che, a parità di condizioni di partenza e di esigenze da soddisfare, sono molto differenti fra loro.

 

Da questo punto di vista, un tema importante attiene alla distinzione tra intelligenza calda e intelligenza fredda. Intelligenza fredda è logica pura. E tuttavia non sempre la soluzione più logica è – specie quando si tratti di decisioni pubbliche, rimesse cioè ad autorità politiche scelte dai cittadini attraverso il voto o a uffici pubblici che operano sotto l’indirizzo di esse – anche quella in concreto preferibile, tenuto conto di tutti i fattori circostanzianti del caso. Detto altrimenti, non è scontato che la scelta pubblica più (strettamente) logica sia anche la migliore, nella situazione data. Anzi. La scelta pubblica migliore, infatti, è quella, una volta attentamente considerato ogni aspetto, in concreto preferibile. Che è o può essere, più spesso, ben altra cosa rispetto a quella più (asetticamente) logica. La decisione pubblica ha del resto come punto di caduta, sempre, le persone. Magari indirettamente, ma sempre le persone. In carne e ossa.

 

Soccorre, a questo punto della riflessione, il concetto di elaborazione critica. Rilevante sempre, ma ancora più in tema di «decisione pubblica» (nel senso, sopra indicato, che appare appropriato associare a questa espressione). Per essere realmente tale, infatti, o l’elaborazione dell’informazione disponibile viene effettuata con senso critico (in rapporto ai diversi contesti cui ci si applica) oppure, semplicemente, non è.

 

L’elemento che nella decisione pubblica non semplicemente può, ma, anzi, deve fare sempre la differenza sta nella discrezionalità (politica o amministrativa che sia) del decisore. Difficilmente (e, soprattutto, sconsigliabilmente) ingabbiabile negli angusti spazi propri dell’Ia. È la discrezionalità, a ben vedere, il fattore che nei singoli casi può rendere una data decisione – diversa dalla scelta più (asetticamente) logica – quella in concreto preferibile.

 

Perfino quando distinta da quella che, usando paradigmi di ordine puramente algoritimico, potrebbe assumere i tratti di una nuance di controintuitività. Dove, ad esempio, la soluzione preferibile in concreto fosse la concessione non dovuta di una misura (finanziaria o meno che sia) in grado di evitare il disordine sociale, a fronte di un’esigenza oggettiva avvertita da migliaia di persone (studenti in difficoltà oppure lavoratori di distretti industriali con posti di lavoro messi a rischio da produzioni straniere che non competano ad armi pari), o una seria misura compensativa utile a superare la contrarietà di un territorio alla realizzazione di un’opera infrastrutturale, l’Ia saprebbe…arrivare?

 

Questa, e quelle di stampo analogo, sono le domande da porsi, oggi, sull’Ia, a proposito di «decisione pubblica».

 

Da questo punto di vista, si può forse intravedere anche qualche punto di contatto con la non meno importante discussione sulla predittività decisionale (che si è sinora concentrata, nel nostro Paese, soprattutto sul tema giustizia, che però non è certo l’unico possibile). Ma è prudente relativizzare al riguardo il discorso, rimarcando che l’auspicata prevedibilità delle decisioni non potrà che restare cosa ben diversa dalla possibilità di previsione esatta. Perché, evidentemente, non esistono due situazioni eguali, né due decisori identici (tanto nelle corti giudicanti, quanto nell’agone della politica o nella Pubblica Amministrazione) chiamati a pronunciarsi sulle medesime.

 

La differenza di fondo è allora di ordine eminentemente culturale: fra il guardare all’Ia con costante senso di centralità della persona, quale nucleo gravitazionale (tolemaicamente, vorrei dire) dell’intero sistema della «decisione pubblica», oppure, all’opposto, con quel senso algoritmico del tutto che ogni cosa rischia, tuttavia, di spianare e annullare.

 

Dunque? Adelante, (ma) con (muy muy) juicio: Ia non sempre, non su tutto, non, soprattutto, facendone un feticcio.