Scommettono su di loro e sperano in un ritorno. Tutto lecito: nella competizione i fondi fanno la differenza e alle ultime elezioni si sono spesi circa 14 miliardi di dollari. È lo strapotere dei Super Pac

«Ci sono due cose importanti in politica. Una è il denaro e l’altra non ricordo quale sia»: a dirlo, alla fine del 1800, fu il senatore dell’Ohio Mark Hanna. Più di cento anni dopo le cose nella politica americana non sono poi molto cambiate: resta immutata la necessità di trovare fondi e finanziatori.

 

Due le ragioni per cui le campagne elettorali somigliano più a piccole imprese in cerca di venture capitalist che a eventi politici: la prima è che, a differenza che altrove, si può fare; la seconda è che la politica americana costa più che altrove.

 

Negli Stati Uniti qualunque tipo di attività politica, incluso il finanziamento a campagne, ricade sotto il capiente ombrello del Primo Emendamento, quello che tutela la libertà di parola. E questo fa sì che di fatto non gli si possano porre limiti. Se c’è qualcuno in giro che intende spendere miliardi di dollari (e non è un modo di dire) per portare avanti una campagna, non c’è nessuno che possa impedirglielo. Anzi. Nel 2010, una decisione della Corte Suprema ha di fatto spazzato via le già poche limitazioni che c’erano, consentendo anche a società e sindacati di contribuire, anche se in modo indiretto, alle campagne elettorali. Questo ha dato la stura a una crescita esponenziale delle donazioni e soprattutto alla nascita dei cosiddetti Super Pac, considerati l’evoluzione elefantiaca dei Pac. Se i Pac (Comitati di Azione Politica) sono migliaia ed esistono da decenni (il primo fu istituito nel 1943 per assicurare finanziamento popolare alla campagna di Roosevelt) e raccolgono fondi per le campagne elettorali, i Super Pac ne sono la versione riveduta e corretta: non hanno limite di donazione e di spesa, non sono tenute a rivelare i nomi dei loro donatori e soprattutto non hanno legami diretti con le campagne e con i candidati, ma sono, più genericamente, gruppi di influenza, che possono finanziare campagne autonome a sostegno di questo o quel candidato. Lo stesso vale per le organizzazioni no profit, come il Marble freedom trust, gruppo ultra conservatore che, pochi mesi fa, ha incassato la più grande donazione privata di tutti i tempi: un miliardo e seicento mila dollari dal magnate dell’elettronica Barre Seid.

 

Tutta questa architettura di legittimità del finanziamento ci porta dritti al secondo punto: ossia quanto costa la politica americana e perché. Partiamo dalle cifre: nel 2020, le spese elettorali di Joe Biden e Donald Trump hanno superato i tre miliardi di dollari. Anzi, poiché in quella stessa tornata si votava anche per il rinnovo del congresso, di un terzo del Senato e per eleggere i governatori di vari Stati, la spesa complessiva per quella campagna elettorale in lockdown (quindi quasi senza eventi pubblici e bagni di folla) ha sbaragliato ogni record, superando i 14 miliardi di dollari, il che significa più del doppio delle spese delle campagne del 2012 (Obama-Romney) e del 2016 (Clinton-Trump).

 

Per avere un’idea di quanto grandi siano queste cifre, basti pensare che il budget stimato per la campagna elettorale di Fratelli d’Italia nel 2022 è stato tra i 3 e i 4 milioni di euro. Oppure che in Francia (Paese le cui campagne elettorali sono per molti aspetti simili a quelle americane), nel 2022 Emmanuel Macron ha speso una cifra di poco superiore ai 16 milioni di euro, Jean Luc Mélenchon 14 milioni e Marine Le Pen 11. In tutto, fa meno di 50 milioni. In una campagna elettorale presidenziale americana, con 50 milioni, si comprano solo le noccioline.

 

Le ragioni di tanta fame di soldi della politica americana hanno a che fare con le evidenze dell’enorme spazio americano, grande come l’intera Europa e da percorre in lungo e in largo, con la lunghezza delle campagne elettorali, che tra primarie e elezioni durano più di un anno, e con l’importanza che hanno la comunicazione e la pubblicità nella cultura americana e con il modo di vivere dei cittadini americani che, per giunta, sono poco interessati alla politica e, dunque, particolarmente difficili da raggiungere e coinvolgere (l’affluenza supera di poco il 50%).

 

A questo punto però, assodato che è legale e che è necessario, è legittimo chiedersi: «Sì ma chi paga?». E soprattutto: «Cosa ottiene in cambio?». Per conoscere nomi, cognomi e importi versati dei donatori più grandi (ossia di quelli che fanno donazioni superiori ai 2.500 dollari) il sito della Fec (Federal electoral commission) pubblica tutti i dati di tutte le donazioni, mentre il sito no profit Open Secret li aggrega in modo chiaro e leggibile.

 

Così, scartabellando tra cifre, beneficiari e donazioni, ci si può togliere qualche curiosità. Per esempio, ai complottisti piacerà sapere che nel 2022, George Soros, ha fatto arrivare in vari modi, ai candidati democratici al Congresso la bellezza di 178 milioni di dollari; oppure che, nel 2020, la maggiore donazione elettorale in assoluto è stata fatta da Gary Sheldon (quello del Venetian di Las Vegas) che ha versato alla campagna di Donald Trump la bellezza di 215 milioni di dollari, nanificando la principale donazione alla campagna di Clinton del 2016, appena 98 milioni di dollari dal magnate ambientalista (poi a sua volta candidato meteora alle elezioni 2020) Tom Steyer.

 

Quanto all’ultima questione, cosa si ottiene in cambio di tutti questi soldi, la risposta è semplice e complessa allo stesso tempo. Semplice, perché, come minimo, si ha un canale di accesso privilegiato a deputati, senatori, governatori e persino presidenti. Complessa perché non è detto si vinca e perché non è detto che questo ascolto si traduca davvero in azioni politiche concrete e desiderate.

 

Le elezioni americane, appunto, assomigliano più a una faccenda di venture capitalist che di ideologia. E come tutti gli investimenti, possono dare frutti o essere un buco nell’acqua.