L’amore per Slawek, incontrato mentre chiedeva l’elemosina, ha condizionato la sua vita. E, quindi, gran parte della sua produzione letteraria. «Il mio sguardo si è spostato sulle ombre, tutto mi faceva pietà. Ancora oggi ho un’ipersensibilità da abbandono»

«Dio mi ha messo davanti a storie non ordinarie, enormi, ogni tanto credo che mi abbia sopravvalutata». Veronica Tomassini è una scrittrice potente, raffinata, libera, probabilmente la più interessante penna degli ultimi anni, anche se niente di ciò che scrive è consolatorio e rassicurante. Leggerla ti lascia la stessa sensazione che provi di fronte a uno scatto del fotoreporter brasiliano Sebastiao Salgado: respiri le fatiche umane. Non c’è una lezione morale, non c’è bisogno, eppure diventa un manifesto sociale, con la sua cruda verità che ha un sola origine: l’amore.

Non ha un’immagine pubblica ordinaria, dunque non la troverete nei luoghi dove siete soliti rintracciare gli scrittori e i giornalisti. Vive a Siracusa, nella casa di campagna dei suoi genitori, con suo figlio Patrick, avuto da Slawek, grande amore della sua vita che ha condizionato gran parte della sua produzione letteraria. Polacco, alcolista, orfano e bellissimo; chiedeva l’elemosina al semaforo della sua città quando l’ha incontrato. Questa storia è diventata nel 2010 un libro dal titolo “Sangue di cane”, un caso letterario, la storia della sua vita. «Devi andare lì dov’è la tua ferita, non ci devi girare attorno». Le disse il curatore editoriale Giulio Mozzi quando la scoprì.

«Mi sono fermata a Siracusa a un semaforo e ho visto un ragazzo bellissimo chiedere l’elemosina non perché fosse povero, ma perché era alcolista. I suoi amici morivano, lui si è salvato. Per anni l’ho aspettato quando spariva o sono corsa a riprenderlo. Dio l’ho incontrato lì, non dentro una Chiesa, ma nei parchi dove la gente moriva, per me lì c’erano indizi di eternità. Ridotti com’erano quei reietti della società, non riesci a immaginare che un tempo fossero stati perfino uomini. Uscivo e non sapevo se tornavo viva perché finivo in ambienti pericolosi, rischiavo la vita».

Nessun salotto, nessun talk show, nessuna strategia mediatica, la stessa vita di sempre, nella sua «solitudine geografica». Nel 2019 ha pubblicato “Mazzarrona”, candidato al premio Strega; nel 2020, decide invece di auto-pubblicare il romanzo epistolare “Vodka siberiana”, l’ennesimo successo di critica. Lo fa malgrado avesse già pubblicato con case editrici come Marsilio, Feltrinelli, soprattutto per la consapevolezza di avere un linguaggio non conforme, che non somiglia a nessuno.

«Ho studi limitati e ogni tanto penso come facciano a uscirmi le parole. Per molto tempo non avevo modo di essere una brava madre, di scrivere. Ancora oggi non c’è giorno che io non pianga, ho un’ipersensibilità da abbandono. Mi sento disperata e malgrado questo puntualmente vengo abbandonata. Quando c’era lui ero felice, anche nella disperazione: questo era amore. Oggi non sono più innamorata».

Il suo sguardo così lucido e «deragliato sugli ultimi», di pietà nei confronti dei perdenti si è acceso per caso, a otto anni, quando ha scelto di leggere il libro: “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”. «Il mio sguardo ha iniziato a spostarsi sulle ombre. E per me quell’ombra era luce, tutto mi faceva pietà, se c’era qualcuno sdraiato per terra io lo fissavo. Volevo capire. Ho delle difficoltà oggettive che hanno condizionato la mia vita. Sono una irregolare».

Veronica non ha avuto una vita infelice, non una vita felice. Tuttavia, tutto ciò che malgrado questo, o forse per questo, è stato prodotto è diventato bellezza. Come l’ultimo libro, “L’inganno”, edito da La nave di Teseo.