La serie tv tratta dalla saga best seller “I leoni di Sicilia”, l’ammirazione per la Francia e per Carrère, i consigli di Dacia Maraini per il nuovo romanzo. Dialogo a tutto campo con la scrittrice

Che tra Stefania Auci e la Francia ci fosse un’affinità, se non un legame profondo, si poteva intuire dal titolo del suo primo romanzo storico ambientato in Italia: “Florence” (Baldini+Castoldi), storia d’amore, guerra e ideali ambientata tra il Chianti e Firenze. Il libro uscì otto anni fa, molto prima che “I leoni di Sicilia” e “L’inverno dei leoni” (Editrice Nord) garantissero alla scrittrice il successo internazionale, oggi all’apice: diritti di traduzione ceduti in 37 Paesi, un milione e 200mila copie vendute in Italia e 100mila solo in Francia, dove la saga della famiglia Florio, quattro generazioni tra Ottocento e inizio Novecento, è stata pubblicata in tre volumi dall’editore Albin Michel. Entro quest’anno sarà disponibile in streaming su Disney+ la serie tv tratta dalla saga, diretta da Paolo Genovese. Un trionfo annunciato.

 

Fuori dai confini nazionali, la scrittrice sta conquistando lettori soprattutto in Francia, a giudicare dalle vendite e dall’accoglienza calorosa del pubblico a Parigi, in occasione del Festival du Livre, con l’Italia come Paese ospite d’onore. «Per me le suggestioni nascono dai luoghi, più che dalla letteratura. Non si può camminare a Parigi senza pensare che in queste strade è passata la Storia», afferma Auci, empatica e gioviale, seduta su un banco con le gambe incrociate in attesa di incontrare professori e studenti della scuola italiana statale “Leonardo da Vinci”. Qui, nell’affollata palestra che ospita l’evento, gioca in casa: insegnante di sostegno in un istituto tecnico in un quartiere difficile di Palermo, la scrittrice è abituata a trattare alla pari con i colleghi.

 

Auci, che rapporto ha con la Francia? Il Paese è attraversato da profonde tensioni, durante le manifestazioni contro la riforma delle pensioni sono state arrestate centinaia di persone.
«Ho grande rispetto per la Francia. In gran parte, i principi giuridici europei di democrazia e uguaglianza affondano qui le radici. Si vede anche dai fermenti di natura sociale e dalle manifestazioni, a volte violente, che comunque rappresentano un certo modo di intendere la cosa pubblica. Una concezione che in Italia si è persa».

 

Cosa pensa della letteratura francese contemporanea?
«Mi è capitato di incontrare Emmanuel Carrère a Taormina, è stata un’esperienza pazzesca. Lo apprezzo moltissimo per la sua scrittura, l’incisività, la capacità di leggere la realtà. Aprire un libro di Carrère significa gettare uno sguardo sul mondo contemporaneo. È una figura fondamentale».

 

A proposito di Carrère, di sicuro avete in comune lo yoga, che è anche il titolo del libro, edito da Adelphi, dello scrittore francese.
«Da anni faccio pilates e yoga per scaricarmi e rilassarmi. Per un lungo periodo ho fatto nuoto, mi manca moltissimo ma la situazione delle piscine a Palermo è pietosa. Lo yoga è fondamentale, ma devo stare attenta a non distrarmi perché rischio di farmi male».

 

Anche Michel Houellebecq è una star.
«Confesso di non conoscerlo molto. Di lui ho letto poco, a sprazzi. Sinceramente mi trovo più a mio agio con i classici: Victor Hugo e soprattutto Alexandre Dumas».

 

C’è un momento storico o un personaggio che le piacerebbe approfondire?
«Ho una grande passione per il periodo di Napoleone III e per un romanzo maltrattato: “Il fantasma dell’Opera” di Gaston Leroux. Uno di quei casi in cui il romanzo è infinitamente più bello, ricco, vivace e pieno di sfumature del musical che ha generato. E mi hanno sempre incuriosito le grandi cortigiane di quel periodo: donne senza risorse economiche che hanno contribuito a creare un certo tipo di femminilità. Libere, capaci di determinare sé stesse e anche la propria disgrazia, di avere relazioni con i potenti dell’epoca. Ma non si trattava di bieca prostituzione. Oggi non riusciamo a capirle fino in fondo».

 

In autunno uscirà in streaming su Disney+ “I leoni di Sicilia”, la serie tv diretta da Paolo Genovese. È soddisfatta del risultato?
«Ora è in fase di post-produzione. Sono molto contenta di quello che ho visto. Non c’è una piena, totale aderenza al romanzo, ma succede sempre nella trasposizione, si tratta di due linguaggi diversi».

 

I suoi libri sono stati tradotti in 37 Paesi, anche in cinese e in arabo. Che effetto le fa?
«La copia in cinese, devo essere onesta, non l’ho ancora vista. E mi è sembrato strano avere tra le mani quella in arabo, che si legge da destra a sinistra come quella in ebraico. Nella mia libreria le ho messe l’una vicina all’altra, spero che almeno lì il dialogo sia possibile».

 

Il successo le consentirebbe di lasciare il lavoro di insegnante. Ci sta pensando?
«Insegnerò finché le condizioni mi permetteranno di farlo. Mi occupo di ragazzi che hanno una disabilità: il lavoro mi piace, insegno in un istituto professionale difficile. Dal mio mestiere ho imparato che la vita è ben altro rispetto ai libri: fatica, sfortuna, privazione. Prima di essere una scrittrice sono anzitutto una persona, penso che ognuno debba mettere i propri talenti a disposizione degli altri».

 

A proposito di talento, la saga dei Florio è anche una storia di riscatto sociale. Quando Vincenzo, figlio di Paolo, prende in mano l’azienda di famiglia, lo slancio diventa inarrestabile. Sarebbe possibile un’ascesa sociale simile nella Sicilia di oggi?
«La voglia di ottenere risultati prescinde da tempo, luogo e spazio. È legata al bisogno di ogni essere umano di trovare la propria strada. Tuttavia, diventa tutto più complicato in alcune aree del mondo: mettere su un’impresa in Sicilia non è facile, per diversi motivi. La criminalità organizzata è uno dei meno rilevanti, rispetto ai trasporti, alla capacità di porsi sul mercato in maniera adeguata, alla mentalità. Molti siciliani pensano a sé stessi come sconfitti in partenza e invece la nostra terra è ricca di talenti, risorse, conoscenze».

 

Le piacerebbe lasciare la Sicilia?
«Sì, ma solo per un’isola ancora più isolata: Favignana o Pantelleria (ride), chissà».

 

Nel corso dei decenni molti scrittori, artisti e intellettuali siciliani sono andati a vivere al Nord.
«È un fatto che mi ha sempre colpito. Leonardo Sciascia è stato a Milano e Parigi, ma alla fine è tornato in Sicilia. Anche Nadia Terranova, che sento molto vicina, vive a Roma ma i suoi racconti hanno come orizzonte Messina. I siciliani che se ne vanno si dividono in due categorie: chi ripudia le proprie radici e chi parte ma non riesce a staccarsi del tutto dalla propria terra. Per un sacco di tempo molti siciliani si sono vergognati delle proprie origini: il Sud e il dialetto erano sinonimi di estrazione sociale povera, disagio, scarsa cultura. Oggi tutto questo, invece, viene vissuto come ricchezza e biodiversità della lingua».

 

Andrea Camilleri ha giocato un ruolo importante.
«Direi fondamentale. Lui stava a Roma ma la Sicilia se l’è portata dentro tutta la vita. Anche io ho cominciato a parlare di questa terra quando me ne sono andata. Il mio periodo a Firenze mi è servito a creare questo distacco, poi ho scelto un luogo della Sicilia che amo moltissimo ma da cui non provengo: Palermo. Non so se avrei la stessa freddezza nel raccontare Trapani».

 

Dopo il successo come affronta il prossimo romanzo?
«Qualche tempo fa ho incontrato Dacia Maraini. È una donna di grandissima sensibilità e intelligenza, uno dei miei punti di riferimento. Le ho chiesto: “Come si sopravvive a un successo?”, alludendo al suo romanzo “La lunga vita di Marianna Ucria”, che fu un trionfo (nel 1990, ndr). Lei mi ha risposto: “Chiudi la porta, scrivi come meglio puoi, non pensare agli altri, continua a divertirti”. È quello che cerco di fare con il nuovo libro».