Dalla Polonia agli Usa la libera scelta è messa in forse. In Italia ripetono che la legge non si tocca. Ma la si accerchia: pro-vita nei consultori e obiettori di coscienza nei punti Ivg. E il caso della regione in prima linea contro l’interruzione di gravidanza

In ogni buona distopia, per esempio in The Stand di Stephen King, c’è un sopravvissuto alla catastrofe che prende appunti per ricordare i dettagli del mondo di prima. Piccole cose, come una marca di biscotti o una certa musica che usciva dal juke-box. Proviamo a ripetere l’esperimento, voltando lo sguardo indietro fino agli anni Settanta del secolo scorso.

Cose da non dimenticare. Una. La compagna di scuola, la più bella, che rimane incinta, e ha sedici anni soltanto e non può e non vuole portare avanti quella gravidanza. La colletta di noi ragazze. Il medico che fa raschiamenti a caro prezzo, non solo economico. Lei rimane sveglia. Racconterà solo che la camicetta bianca che aveva indosso, era, infine, scura di sudore.

Cose da non dimenticare. Sempre quella. La racconta Annie Ernaux in L’evento: una ragazza che studia all’università per emanciparsi dalla classe sociale dei genitori. Rimane incinta. Vuole abortire. Lo fa in uno dei modi orribili in cui si abortiva clandestinamente, ed è solo dopo quell’aborto che il desiderio di maternità, di essere il corpo attraverso cui passano le generazioni, verrà accolto. Il modo in cui Ernaux racconta è spietato: con sé stessa e con chi la circonda, dal ragazzo con cui si accompagnava, e che ovviamente non desidera altro che star fuori dalla faccenda, agli amici o presunti tali che, ricevuta la confidenza, le mettono le mani addosso convinti di una disponibilità sessuale ormai ovvia, fino ai medici che se ne infischiano, pii e severi, salvo concederle una prescrizione di penicillina e salvo, ad aborto compiuto, ammettere con un sorrisino che non c’era bisogno di andare fino a Parigi per trovare una donna disposta all’intervento.

Cose da non dimenticare. Ancora. Le donne lungo le scale di via di Torre Argentina 18 a Roma, sede del Partito Radicale, il martedì e il giovedì alle cinque di pomeriggio, quando il Cisa organizzava le interruzioni di gravidanza, a Londra se era troppo tardi, nelle case delle militanti quando era ancora possibile. Dove cura e tenerezza erano infinite: ma poi bisognava correre in farmacia e implorare piangendo una confezione di Methergin per evitare un’emorragia, piegate in due per il dolore.

Questa, però, non è soltanto evocazione del passato, non è soltanto memoria di una legge che ha eliminato dalla vita delle donne i medici avidi e sbrigativi e le bugie raccontate al farmacista. È la necessità di consegnare alle ragazze di oggi un fatto, e provare a scongiurare la possibilità che quel fatto si ripeta, come sta avvenendo.

Avviene in Polonia. Dopo lo Strajk Kobiet, lo sciopero delle donne polacche del 2020 e 2021 contro la sentenza della Corte Costituzionale che ha reso illegali quasi tutti i casi di aborto, a gennaio Justyna Wydrzyńskaca è stata condannata a otto mesi di servizi sociali per aver aiutato una donna incinta ad accedere alla pillola abortiva.

Avviene negli Stati Uniti. Dopo l’annullamento da parte della Corte Suprema della sentenza Roe vs Wade (che ha girato ai singoli Stati il diritto di regolamentare le interruzioni di gravidanza), in North Carolina è stata appena approvata una legge che vieta l’aborto dopo la dodicesima settimana. Ad Amarillo, Texas, si sta provando a ribaltare l’approvazione della Food and Drugs Administration, Fda, del mifepristone, uno dei due farmaci utilizzati negli aborti farmacologici. In Florida è stata approvata una legge che vieta l’aborto dopo sei settimane. E non è finita.

Ma in Italia la legge c’è, anzi non si tocca, ci viene detto. Non direttamente, certo, ma si accerchia, e ovunque. “Fondi vita nascente” che permettono l’ingresso di associazioni antiabortiste nei consultori. La guerra alla RU486. Obiezione di coscienza, soprattutto.

Come già ricordato, l’indagine Mai Dati! condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, e pubblicata dall’Associazione Luca Coscioni, ci dice che in 11 regioni italiane c’è almeno un ospedale con il 100% di obiettori: 31 in tutto, per essere precisi, e ce ne sono 50 con percentuale superiore al 90% e oltre 80 con tasso di obiezione superiore all’80%. Una regione, in particolare, svetta su tutte, le Marche. Nell’indagine si scopre che 4 strutture su 12 che sono punti Ivg hanno più dell’80% di ginecologi obiettori di coscienza (escluso il 100% di Fermo, 8 ginecologi obiettori su 8, c’è un 100% a Jesi, un 91% a Osimo, un 90% a Fano, e un 82% a Senigallia).

Le Marche sono la regione di Roberto Festa, medico volontario del Centro per la Vita di Loreto e Vice presidente regionale del Forum delle famiglie, sempre in prima linea nel chiedere l’abolizione della legge, e che un paio di anni fa consegnò alla Regione 1.450 pannolini, «uno per ogni bambino abortito nel 2019», perché «chi sostiene che l’aborto volontario sia un diritto ha le mani che grondano sangue innocente, forse più di chi pratica questo inumano delitto». Non a caso nelle Marche, ad Ancona, si è svolta il 6 maggio la manifestazione nazionale di Non Una di Meno che chiedeva, oggi come ieri e l’altro ieri, «l’aborto libero, sicuro e gratuito per tutte».

Cose da non dimenticare. Come scrive Annie Ernaux, «che la clandestinità in cui ho vissuto quest’esperienza dell’aborto appartenga al passato non mi sembra un motivo valido per lasciarla sepolta. Tanto più che il paradosso di una legge giusta è quasi sempre quello di obbligare a tacere le vittime di un tempo, con la scusa che “le cose sono cambiate”». E forse non sono neppure così cambiate.