Negare, eludere, ridimensionare: la maggioranza di Giorgia Meloni non affonda il colpo ma gioca per sottrazione. Smentisce la rilevanza dei medici obiettori. E continua a criminalizzare la Ru486. La legge sull’interruzione di gravidanza ha 45 anni. Ma non è ancora uguale per tutte

Non sempre l’attacco ai diritti ha il passo pesante da King Kong. In quest’era meloniana ha la sottigliezza dell’ambiguità, è subdolo come lo svolazzare di un pipistrello. Preferisce andare di riflesso, di rimbalzo. Trascurare, disapplicare, complicare. Assai più che affermare, cambiare, imporre. Le conseguenze non sono meno gravi: è più difficile però vederle arrivare. Si prenda ad esempio lo stop alle trascrizioni all’anagrafe dei figli di coppie omogenitoriali: è bastata una circolare prefettizia, combinata con il no del Senato alla proposta di adottare un certificato europeo di filiazione, a fare il risultato.

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Una linea politica costruita per sottrazione, in cui si evita di riconoscere quello che c’è (i figli di coppie omogenitoriali), per privilegiare come «modello antropologico» la famiglia «dove ci sono ancora un papà e una mamma» negando persino di produrre una discriminazione: «Non c’è alcuna differenza tra i bambini», ha avuto l’ardire di sostenere la ministra della famiglia, Eugenia Roccella, subito dopo aver spiegato però che i figli delle coppie omo - a differenza di quelle etero - avranno due genitori soltanto previo ricorso al giudice per ottenere una «adozione per casi particolari».

Grossolani e facili, al confronto, i tempi di Silvio Berlusconi, quelli in cui, per fermare la volontà di Eluana Englaro, il Cavaliere tentava la via del decreto, con tanto di urla in Aula, scontro con il Quirinale, assunzione - se non altro - di una qualche responsabilità.

Nell’era di Giorgia Meloni prevale quello che Roberto Saviano chiama «l’estremismo dell’ambiguità». Una espressione che si presta bene a vestire l’atteggiamento nei confronti dell’aborto e della legge che lo regola, la 194 del 1978, approvata il 22 maggio di 45 anni fa.

A partire dall’ambiguità con cui ne ha parlato Giorgia Meloni a cavallo tra la campagna elettorale e la formazione del governo. Assicurare infatti che non si cambierà la legge ma che si vuole applicarla meglio - però solo per la parte che riguarda la prevenzione - può significare tante cose, in alcuni casi opposte, non tutte rassicuranti. Tanto più se chi lo dice è capace di negare le difficoltà di applicazione della 194, quando invece - hanno ricordato le attiviste di “Non una di meno” sfilando in piazza ad Ancona il 6 maggio - «in tutta Italia vediamo come l’aborto sia ostaggio dell’obiezione di coscienza».

Una pietra sull’accesso all’interruzione di gravidanza confermata dagli ultimi dati disponibili al ministero della Salute (risalgono al 2020): in Italia gli aborti continuano a calare (-9,3 per cento sul 2019), ma i medici obiettori sono sempre numerosi, mediamente il 64,6 per cento dei ginecologi, un numero che al Sud sale al 76,9, più di tre su quattro (con punte dell’83 in Abruzzo, 82 in Molise, 81 in Basilicata).

Un quadro che i dati disaggregati mostrano più chiaramente: l’inchiesta giornalistica “Mai dati”, condotta con l’Associazione Luca Coscioni da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, ha evidenziato come alla fine del 2021 ci fossero 22 tra ospedali e consultori con il 100 per cento degli obiettori e 72 ospedali dove la percentuale di chi non pratica aborti è tra l’80 e il 100 per cento. Insomma ci sono luoghi in Italia dove non si può abortire - in tutto il Molise lo fanno due ginecologi e mezzo - ma per Giorgia Meloni vale quel che disse a Mezz’ora in più. Quando le fu chiesto come avesse in mente di affrontare la questione, come applicare non solo la prima (prevenzione), ma anche la seconda parte della 194 (l’accesso all’interruzione), rispose che il problema non c’era: «Non ho mai conosciuto una donna che non abbia potuto abortire in Italia».

 

Negare la questione aiuta a non risolverla, come sanno nelle Marche di Francesco Acquaroli dove il rifiuto di applicare, per due anni, le nuove linee guida per l’utilizzo della Ru486 ha portato la sua regione ad essere una specie di esperimento pilota: percentuali di aborto più basse della media nazionale, ricorso all’aborto farmacologico ridotto a un terzo, ospedali come quelli di Jesi e Fermo dove c’è l’obiezione di struttura (cioè non si fanno aborti), una regione che magari interrompe dopo quarant’anni la convenzione con l’Aied (è accaduto a gennaio, per Ascoli), ma patrocina gli eventi dei pro-vita (ad aprile, a Macerata).

Sul piano generale si tratta, per adesso, soprattutto di un clima. Non a caso, nelle tante resurrezioni operate da questo governo che vede le associazioni pro-life pimpanti come non mai, Giorgia Meloni ha riportato in auge, in posti chiave, un certo genere di personaggi, magari rimasti per qualche anno confinati nelle retrovie.

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Uno dei più influenti è senz’altro Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, tra i membri di Alleanza cattolica, tradizionalista di destra, contrario all’eutanasia, al ddl Zan, alle coppie genitoriali, e ovviamente alla gestazione per altri. Un giurista che, sia pure molti anni fa, aveva scritto proprio sull’aborto parole che ancora campeggiano sul sito di Alleanza Cattolica, immaginando per la 194 una «prospettiva di riforma» che di fatto mandasse all’aria la legge stessa perché «va affermato senza incertezze che l’essere umano è tale dal concepimento, e quindi da quel momento ne va garantita l’intangibilità: l’articolo 1 della legge n. 194 tutela la vita umana “fin dal suo inizio”, ma trascura di riconoscere quando si ha quell'inizio», e quindi «si deve ripensare a misure, anche penalistiche, che dissuadano dalla pratica abortiva: non ha senso proclamare l’intangibilità della vita e ometterne la tutela sotto questo profilo».

Il ritorno di Mantovano ha portato con sé il ritorno - in quanto consulente per le politiche antidroga - del neurochirurgo anti-gender Massimo Gandolfini. Il leader del Family day era in piazza a San Giovanni anche un anno fa, per «contrastare tutte quelle derive legislative, normative che feriscono, annullano la vita dal concepimento alla morte naturale: le leggi che favoriscono l'aborto, il suicidio assistito, l'eutanasia, la morte volontaria e quella medicalmente assistita». Adesso agisce da consulente di Palazzo Chigi.

 

A loro si aggiunge un’altra grande protagonista, almeno sin dai family day dell’era ruiniana: Eugenia Roccella, oggi ministra della Famiglia, ieri sottosegretaria al Welfare e alla Salute, l’altroieri militante radicale e volto del referendum che considerava la 194 un compromesso al ribasso. Una biografia che si può riassumere con una parziale bibliografia dei suoi scritti: il primo fu “Aborto: Facciamolo da noi”, tra gli ultimi figurano “Eluana non deve morire”, “La favola dell’aborto facile”, “Fine della maternità” (dedicato all’eterologa).

Mentre il ministro della Salute Orazio Schillaci si guarda bene anche solo dal dire «194», Roccella in questi mesi è di fatto la portavoce del governo per i temi come questo. In ultimo, intervistata dopo la presentazione del suo libro ad Ascoli Piceno, ha ricordato come la 194 non abbia «nessuna difficoltà di applicazione». Né c’è un problema di «obiezione di coscienza», dice: «perché il carico di lavoro per i medici non obiettori è un aborto a settimana, quindi non c’è sovraccarico». Ecco la sottigliezza: Roccella cita il dato medio nazionale, non le singole realtà disaggregate e, in questo caso, presenti anche nella relazione depositata in Parlamento (strutture dove si fanno 9, 10, anche 16 aborti a settimana, ad esempio).

La parte più interessante delle sue posizioni è però quella che riguarda la pillola abortiva, la Ru486, che rappresenta la maggiore novità sul punto. Commercializzata in Italia nel 2009, imbrigliata nelle linee guida emanate dal Consiglio superiore della sanità proprio negli anni in cui al ministero c’era anche Roccella (inizialmente si obbligava a tre giorni di ricovero), la Ru486 è cresciuta costantemente nel suo utilizzo: il 20 per cento nel 2018, il 32 nel 2020. Fino ad avere un balzo nel quarto trimestre di quell’anno: 42 per cento. In agosto, motivate anche dalle necessità indotte dalla pandemia, entravano in vigore le nuove linee di indirizzo relative alla pillola abortiva, che - allineando l’Italia ad altri Paesi europei - ne rendevano possibile la somministrazione fino a 9 settimane (anziché 7) e la somministrazione anche in ambulatori e consultori e non solo in ospedale.

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Bene: quello che per il resto del mondo sarebbe un’evoluzione, per Roccella è il male assoluto. E non da oggi. «Si vuole arrivare all'aborto a domicilio, con la pillola Ru486, abolendo l'obiezione di coscienza e l'obbligo di legge di eseguire gli interventi in strutture pubbliche», aveva detto a ottobre, in una intervista a governo appena insediato. Le stesse parole da sottosegretaria alla Salute, nel 2010: «Siamo di fronte ad un nuovo attacco, più subdolo, che è quello della pillola abortiva. Un metodo che porta all'aborto a domicilio se non viene adottata una governance attenta».

Secondo Roccella, infatti, «si crea una situazione di fatto che scavalca la 194 e impedisce obiezione e prevenzione». In effetti, con l’aborto farmacologico, il raggio d’azione del ginecologo è ridotto alla scelta di consegnare o non consegnare la pillola (niente più «ostaggi»), per il resto le statistiche del ministero raccontano di casi comunque seguiti dall’inizio alla fine, senza alcuna complicazione nel 97 per cento dei casi.

Ma sulla questione anche Meloni la pensa come Roccella: «Non si può dire che è una conquista di civiltà abortire da sole a casa con una pasticca che produce contrazioni ed emorragie solo perché bisogna sostenere per forza la tesi che abortire è facile» ha scritto in “Io sono Giorgia”.

Insomma, mentre tutti dicono che non ci sono problemi, come in un film di Quentin Tarantino, ciascuno ha preso la mira e ha il dito sul grilletto. Chissà da dove partirà il primo colpo.