In troppe regioni italiane medici obiettori e resistenze varie negano un diritto fondamentale della donna

L’imprevedibilità del calendario degli eventi civili ha fatto in modo che la Festa della Mamma (seconda domenica di maggio, stabilita dal Parlamento nel 1959) cada spesso, come quest’anno, a ridosso della ricorrenza dell’entrata in vigore della legge 194, (22 maggio 1978) che autorizzò l’aborto in Italia, confermato dalla vittoria nel referendum, sempre in maggio, il 17, cinque anni dopo. Un’occasione, spaccata in due (la maternità e l’aborto), per mettere in evidenza il grande tema della questione femminile.

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La maternità è un evento straordinario nell’ordinarietà della vita. Oliviero Toscani, nella sua rubrica “Io c’ero”, ha voluto celebrare la Festa della Mamma a modo suo, scegliendo foto di mamme e figli partendo però dall’immagine iconica del bambino accanto alla mamma col pancione. È l’immagine della grandezza della maternità, nella libertà e non scambiabile con nessuna moneta. C’è però chi la maternità per motivi sociali, economici, psichici, sanitari non può permettersela. La legge sull’aborto consente appunto questa libertà di scelta, una libertà oggi ostaggio degli obiettori di coscienza, sempre più numerosi: la media è del 64% con punte molto più alte, sopra l’80%, in regioni come Abruzzo e Molise, e del 100% in alcuni consultori anche del Nord.

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Nel 45esimo anniversario del varo della 194, L’Espresso dedica la copertina di questo numero alla legge che istituisce l’aborto in Italia, riproponendo la famosa immagine di una donna incinta crocifissa, proprio per ricordare che da allora sono passati tanti anni ma c’è ancora il rischio di tornare indietro.

 

Era il 19 gennaio 1975. Scoppiò un putiferio, tra governo Moro, mondo cattolico, gerarchie vaticane. Il titolo del settimanale era “Aborto: Una tragedia italiana”. Il numero fu sequestrato per “vilipendio alla religione” e il direttore dell’epoca, Livio Zanetti venne denunciato.

 

Erano anni bui e terribili per il diritto della donna ad abortire. Ha scritto L’Espresso: «Durante la battaglia per la legge sull’aborto sicuro, il segretario del Partito radicale Gianfranco Spadaccia venne arrestato, la polizia caricava i cortei e perquisiva le redazioni, il segretario Dc Amintore Fanfani chiedeva atti di censura su stampa e cinema. Preistoria? Quasi. Non c’era Photoshop, nel 1975. Era tutto vero. Vera la modella incinta e dolente, scelta dal fotografo Dante Vacchi, un satanasso che aveva seguito la guerra d’Algeria per Paris-Match. Vera la tempesta politica provocata da Livio Zanetti direttore e Franco Lefèvre editor fotografico: seminato coraggio, raccolta tempesta. Quella copertina, con la sua forza iconica (poi ripresa, variata, citata in campagne femministe, nella fotografia d’arte, nella performance) entrò nella storia del giornalismo d’inchiesta e di denuncia».

 

Alla fine, con i referendum sulle leggi per il divorzio (1974) e l’aborto (1981) vinse l’Italia democratica, più aperta, moderna, dove i diritti, soprattutto delle donne, cominciavano un cammino importante che ancora non è finito. Però, se il divorzio ormai è “nelle cose”, l’aborto trova ancora una forte resistenza in molte regioni italiane, mentre nelle università, nei corsi di specializzazione in Ginecologia, spesso non si fa nemmeno riferimento al tema. Allora vale la pena riproporre quella copertina simbolica per non dimenticare, per non mollare di un millimetro sui diritti, perché la battaglia per un diritto fondamentale delle donne deve andare avanti in Parlamento, nelle piazze, nei consultori. Ma soprattutto nelle coscienze di un Paese laico e moderno.