Marina soffre di disturbo bipolare e, per anni, ha un rapporto malato con il cibo. Si sente un’emarginata. Ma si salva grazie alla passione per la recitazione. «Sul palcoscenico mi sento nel mio ambiente. Lì conta solo il talento»

Dieci anni fa, mentre Marina si stava dirigendo al centro di salute mentale per fare terapia, si imbatte nel portone di un teatro. Si iscrive. «Il ruolo più bello che ho interpretato è stato la prostituta nello spettacolo teatrale “Il cappotto” tratto dall’omonimo racconto di Nikolaj Vasil’evič Gogol. Non era un ruolo contemplato nel testo originale, ma è stato inserito perché parlava di emarginazione. Io sono emarginata: la mia malattia è la pazzia. I matti fanno paura alla gente».

 

Marina è napoletana e oggi vive a Roma, convive da trentaquattro anni con il disturbo bipolare dell’umore. «I miei due fratelli sono morti, perché uno era dipendente dall’eroina e l’altro dall’alcool; io ho avuto un difficile rapporto con il cibo a tal punto che sono diventata anoressica e bulimica. Per anni non ho mangiato e poi mi sono ritrovata a cercare cibo anche nei cassonetti della spazzatura».

 

Marina ha scoperto di soffrire di paranoia con allucinazioni uditive e visive, ha scoperto di distorcere la realtà, mentre lavorava in un ufficio in una società di supermercati. Ha iniziato a vedere cose che non c’erano, a sentirsi perseguitata, senza rendersene conto. «Quando mi hanno detto che dovevo curarmi, non capivo. Convivevo con le voci, con qualcuno che mi parlava all’orecchio: mi avvisava, mi proteggeva da chi voleva uccidermi».

 

I medicinali che ha iniziato ad assumere le sono serviti per tenere sotto controllo quegli episodi, anche se spesso opponeva resistenza perché temeva di dormire, di diventare stanca. «Quando sei nella fase di eccitazione, ti senti onnipotente. Pensi di riuscire a fare qualsiasi cosa, hai un’energia fortissima. Io amo la mia pazzia, a volte l’ho considerata la mia più grande risorsa perché potevo andare ovunque e divertirmi».

 

Ma è la sua grande passione a salvarla: la recitazione. Una dimensione in cui non fa paura a nessuno, al contrario, riesce ad attirare l’attenzione non per un problema, ma per un merito: il talento. Quando era bambina la sceglievano per ruoli principali nelle recite, anche in teatri importanti. Da ragazza avrebbe voluto smettere di studiare e frequentare l’accademia, ma non ha mai avuto il coraggio di chiederlo ai suo genitori e così ha rinunciato. Almeno fino a quando, a 54 anni, ha incontrato il Teatro patologico. «La follia è un capitale enorme, estremamente prolifico, però lo può amministrare solo un poeta», scriveva Alda Merini.

 

«Sono riuscita a soddisfare questo desiderio incompiuto e ho capito che non è mai troppo tardi, anche per vivere davvero. Le persone cosiddette normali hanno paura dell’imprevedibilità di una persona malata di mente. Io la sento la tensione in chi mi incrocia, mi parla; invece nel Teatro patologico sono nel mio ambiente, lì mi sento normale e anche di più: realizzata. Grazie al direttore Dario D’ambrosi, siamo una famiglia, ci vogliamo bene, c’è assenza di giudizio. Ora stiamo preparando la “Divina Commedia”, il mio inferno è stato il mio disturbo dell’alimentazione cominciato a quattordici anni e terminato a quaranta. La fissazione con il corpo mi ha logorato il cervello e l’anima. Nella vita mi è mancato l’amore, ma grazie al teatro non sarò mai più sola».

 

Perché anche la follia merita i suoi applausi, come scriveva Alda Merini.