Dal fantomatico Ponte sullo Stretto alle strade marchigiane. Progetti e cantieri eterni devastano il nostro Paese. Seguendo un’idea di sviluppo vecchia, che non porta vantaggi tangibili e accumula enormi costi ambientali. A scapito delle generazioni più giovani

La storia insegna: anche la storia della televisione, a ricordarla. Per esempio, nel 1992 va in onda su Canale 5 “Piazza di Spagna”, serie televisiva in cinque puntate diretta da Florestano Vancini: la vicenda non è originalissima e narra la storia di una ragazza di umili origini, Annabella (Lorella Cuccarini) che lavora come commessa ma vuole diventare top model (i tempi erano quelli), e precipita in un gorgo di intrighi e malaffare. Cosa c’entra la serie con le grandi opere? Oh, c’entra eccome. Perché fra i protagonisti abbiamo l’imprenditore siciliano Carmelo Cascone (Enrico Maria Salerno) che si è trasferito in un attico di lusso pacchiano e debordante a piazza di Spagna, per procurarsi le giuste amicizie al fine di costruire il ponte sullo Stretto di Messina (nel frattempo si fa mettere quaranta maniglie d’oro massiccio alle porte, tanto per chiarire chi ha i soldi).

 

Se si vuole rintracciare il carattere degli italiani nella loro rappresentazione, la fiction è esemplare, perché l’ossessione per le grandi opere è uno dei temi ricorrenti del nostro Paese. Facciamo un ponte! Facciamo una superstrada! Facciamo l’alta velocità! In nome di cosa? Ma del turismo, naturalmente. La stessa concezione del turismo che ha reso i centri storici delle città d’arte tutti uguali: le stesse marche di abbigliamento a pochi spicci, le stesse gelaterie, gli stessi spritz di un sospetto color tramonto sui tropici. Chi osa avanzare un dubbio sull’idea del turista che, poveraccio, deve correre velocissimo su ponti e autostrade e trottare fra franchising di mutande e di pizza al taglio surgelata, è nostalgico. Ecco, qui è la storia del cinema a venirci in aiuto. Ne “La grande bellezza” di Paolo Sorrentino c’è una frase equivoca sulla nostalgia: «Che cosa avete contro la nostalgia, eh? È l’unico svago che resta per chi è diffidente verso il futuro, l’unico».

 

Naturalmente l’equivoco non si deve certo alla sceneggiatura, ma al significato che viene attribuito quasi unanimemente al sentire nostalgico: guardare indietro. È vero che nostalgia viene da νόστος (ritorno) e άλγος (dolore) e quindi indicherebbe letteralmente qualcosa come “dolore del ritorno”. Nel tempo, però, nostalgia viene a coincidere con passatismo. Ovvero ancora, la lagna di coloro che rimpiangono i bei tempi che non tornano.

 

È esattamente il contrario. È la mentalità di chi ritiene che il futuro si identifichi con il turismo al galoppo sulle grandi opere, e dunque con la cementificazione ulteriore di un Paese già saturo, a essere passatista. Qualche anno fa Tomaso Montanari commentava: «Andrà scritta, prima o poi, la vera storia della cementificazione dell’Italia. Quella storia che oggi ci presenta un conto terribile. Andranno identificati, esaminati, valutati i giorni, le circostanze, i nomi, le leggi nazionali e regionali, i piani casa, i piani regolatori, i condoni, i grumi di interesse che – tra il 1950 e il 2000 – hanno mangiato 5 milioni di ettari di suolo agricolo. E che solo tra il 1995 e il 2006 hanno sigillato un territorio grande poco meno dell’Umbria, in un inarrestabile processo che oggi trasforma in cemento 8 metri quadrati di Italia al secondo».

 

Il punto è che i conti di quel che si fa vengono pagati dalle generazioni successive. Meno boschi, più frane, meno turismo sostenibile, o comunque lo si voglia chiamare. L’elenco sarebbe sterminato, e ci limitiamo a una Regione: le Marche. Prima del terremoto del 2016 erano già state disboscate per la costruzione della Quadrilatero, la superstrada che congiunge Foligno a Civitanova Marche: venticinque minuti in meno di percorso, a fronte della sparizione di verde e di paesi divenuti fantasmi. Ma in cambio quei fantasmi dovevano avere un ritorno, una promessa da incassare: i Pav, i Piani di Area Vasta, quelli che hanno convinto i comuni a cofinanziare la Quadrilatero. I Pav, nelle intenzioni, dovevano trasformare gli assi viari in «flussi di ricavi attraverso l’insediamento di nuove aree produttive, denominate Aree Leader e Aree di implementazione, adiacenti alle medesime infrastrutture stradali». In poche parole, pompe di benzina, autogrill, lavoro. Non è successo niente di tutto questo. Anzi, si sta lavorando al proseguimento della Quadrilatero con l’Intervallava, che proseguirà nel disboscamento fra Tolentino e San Severino Marche, nonostante le proteste dei residenti.

 

Quanto al Ponte sullo Stretto, solo ripercorrerne la storia richiederebbe un libro, dal momento che, escludendo Lucio Cecilio Metello, che nel 251 a.C. fece costruire un ponte di barche e botti per trasportare elefanti da guerra dalla Sicilia (peraltro nell’antichità portava malissimo costruire ponti: veniva anzi ritenuto sacrilego e per questo si sacrificavano vittime umane sotto le fondamenta), il progettone è stato accarezzato da metà Ottocento in poi. Nel 1982 il ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno, Claudio Signorile, ne annunciò la realizzazione, promettendo che il ponte si sarebbe fatto «entro il 1994». Del resto, disse in un intervento televisivo, «l’Italia è un immenso cantiere». Ma le cose, da allora, sono andate molto avanti, e il Ponte ritorna come un antico incubo.

 

L’Italia, intanto, resta un immenso cantiere. E grande opera dopo grande opera, bisognerebbe ricordare quello che scrisse Antonio Cederna in “Paesaggio con rovine”: «L’Italia che amiamo è una Repubblica che si affonda su un avverbio: ancora. Uno arriva sul promontorio di Portofino, guarda e dice “toh, c’è ancora”. Scende nel Salento e ritrova la pineta che ricordava verdissima sul blu del mare, ritrova lo scoglio intatto e esclama: “che bello, è ancora così”».