Tra tre mesi si deciderà se portare avanti l’iter della riforma costituzionale – tanto cara alla premier Meloni – nel normale dibattito parlamentare o tramite una commissione che coinvolga le opposizioni. Strumento che in passato ha spesso fallito

Tre mesi per capire le sorti del presidenzialismo (o simili). Tre mesi in cui nel diluvio di commissioni ad hoc che intasano i lavori parlamentari, ce n’è una che silenziosamente si prepara nelle retrovie. Una commissione che – com’è tradizione – avrebbe la maiuscola: la Bicamerale per le riforme. La premier Giorgia Meloni, almeno quando stava all’opposizione (ma era un altro film) sembrava credervi. Tanto da presentare un suo disegno di legge ad hoc. Naturalmente per promuovervi quell’elezione diretta del presidente della Repubblica che oggi sa benissimo essere indigesta a tutta l’opposizione, con l’eccezione del Terzo Polo.

 

Così si materializza il bivio: scelta diretta del capo dello Stato o del premier, cosa che piace di più a sinistra? Entrambe le opzioni saranno contenute nel disegno di legge della ministra per le Riforme, Elisabetta Casellati, previsto per luglio. Ma le due strade – quella parlamentare classica della doppia lettura e la Bicamerale – sono inconciliabili. Nel centrodestra non ci sono dubbi che a guidare la commissione debba essere un esperto come Marcello Pera, oggi senatore FdI, ma già presidente del Senato e “saggio” nella Bicamerale guidata da Massimo D’Alema. Fra tre mesi il probabile colpo di scena.

 

Naturale che lo “scippo” riformista non piacerebbe a Casellati, oggi impegnata in una maratona taglia-leggi che dovrebbe portare entro l’estate a disboscare 2.500 decreti regi del 1861-1870. Anche perché resterebbe di fatto l’unica missione della ministra, visto che un’altra riforma, affidata al collega leghista Roberto Calderoli, ha già svuotato il suo dicastero: l’Autonomia differenziata, vera bomba a orologeria per la tenuta del Paese. Meloni vorrebbe spegnere la miccia centrifuga proprio con il presidenzialismo, contando sulla sponda dell’opposizione che teme lo “spacca-Italia”. Ma sa benissimo che per l’alleato Salvini è in gioco più che una bandiera: pura sopravvivenza.

 

E qui i nodi vengono al pettine: accetterebbero i leghisti una commissione che tramite il presidenzialismo imbrigli l’autonomia? Del resto, senza l’elezione diretta di un presidente che rappresenti l’unità nazionale, la leader di un partito dal nome Fratelli d’Italia rischierebbe di passare alla storia come la premier che ha sancito il ritorno agli staterelli preunitari, pur di accontentare il Carroccio. Così la Bicamerale, con venti parlamentari e un potenziale presidente come Pera, dall’autunno in poi potrebbe giocare un ruolo cruciale nel braccio di ferro tra alleati, un banco di prova per capire quali assetti vorrà il centrodestra del futuro e l’opposizione di Schlein-Conte-Calenda di domani.

 

Da sempre le riforme modellano anche le alleanze, anzi – per chi abbia visione politica – accompagnano un disegno. I sondaggi, sulla carta, sarebbero a favore dell’elezione diretta del presidente o premier che sia (cose assai diverse fra loro), con la motivazione che 68 governi in 75 anni sono troppi. Insomma, le riforme a colpi di maggioranza in aula hanno accompagnato sempre naufragi politici: il federalismo dell’Ulivo del 2001, la devolution berlusconiana del 2006 e il referendum che costò la poltrona a Renzi nel 2016. L’altra strada sarebbe la Bicamerale, con avvertenza a firma Calderoli: «In nove legislature non ne ho mai vista una conclusa con successo». Però non c’era di mezzo il rischio dell’autonomia.