Gli strumenti in mano all’Agenzia delle Entrate permettono di intercettare le irregolarità. Ma serve la volontà politica di attuare queste poche semplici iniziative

L’evasione fiscale è un fenomeno che il nostro Paese si porta dietro dalla sua nascita. Già dalla legge del 1951 di «perequazione tributaria», il ministro Ezio Vanoni, infatti, sosteneva che «perequare vuol dire far pagare di più a chi può di più, per sgravare i meno abbienti».

 

Luigi Einaudi, nel riflettere sulla riforma Vanoni nelle “Prediche inutili”, asseriva che si sarebbero potute combattere «l’elusione e l’evasione con i sorteggi a campione, suddivisi per categorie». Mettendo, cioè, sul capo del contribuente il rischio di essere sorteggiato. Da allora siamo allo stesso punto. L’elusione e l’evasione sono sempre lì con la stessa proporzione (100 miliardi di euro circa).

 

Oggi l’Agenzia delle Entrate sarebbe nella condizione, in base all’incrocio dei dati di ognuno di noi, di confrontare la situazione patrimoniale e finanziaria di ciascun contribuente con i redditi denunciati. E trarne le debite conseguenze sull’adeguatezza della dichiarazione fiscale.

 

Per fare questo ci vuole una decisa volontà politica dei governanti che non ha trovato casa nei governi precedenti e che risulta addirittura negata dal governo Meloni. Il quale, nella riforma, osanna alla pace fiscale.

 

Bisognerebbe che fossero aboliti i condoni fiscali e le rottamazioni delle cartelle, che non fosse aumentato il tetto al contante a 5.000 euro e che non si ricorresse all’estensione clientelare delle cedolari secche.

 

L’elusione e l’evasione fiscale non possono essere vinte se non ci si rende conto che la giungla delle leggi fiscali è il principale alibi per edulcorare la posizione dei grossi contribuenti, siano essi società multinazionali o cittadini possessori di tante scatole vuote in cui depistare le transazioni finanziarie, estero su estero o sul territorio nazionale con le famigerate cartiere.

 

L’incrocio dei dati avrà, infatti, maggiore capacità di radiografare la posizione fiscale di un contribuente quanto più si riduce la giungla fiscale delle leggi, di difficile interpretazione e dense di rinvii ad altre leggi in un labirinto estenuante.

 

Il disboscamento della normativa con la stesura di un testo unico che concerne Irpef, Iva e Ires sarebbe di grande aiuto per i contribuenti e per i controllori. Favorirebbe poi la riduzione del ricorso agli interpelli, che sommergono l’amministrazione finanziaria sotto una montagna di carta.

 

L’ingiustizia fiscale – che sta crescendo con la riduzione del numero delle aliquote e il moltiplicarsi delle cedolari secche sulle rendite, come quella sugli affitti commerciali di cui alla bozza di legge delega, istituita nel 2019 e più applicata – incrementa la disuguaglianza sociale ed economica nei confronti dei contribuenti assoggettati alla ritenuta alla fonte.

 

Le aliquote proporzionali fisse sono la negazione della progressività delle imposte che deve essere commisurata alla capacità contributiva. Stesso ragionamento vale per i titoli di Stato tassati al 12,5 per cento, dal momento che le emissioni, per essere accolte dai risparmiatori, devono assicurare rendimenti di mercato e non possono essere compiacenti con lo Stato con un rendimento inferiore perché nessuno sottoscriverebbe i titoli.