«Sono nata in Italia ma il mio Paese fatica ancora a riconoscermi in quanto tale. Forse perché sono nera o perché sono nata da genitori immigrati. Forse perché lei non vuole e non è ancora pronta al cambiamento». Lettera aperta alla premier da parte di chi rivendica il diritto a esistere

Illustre presidente Giorgia Meloni,

 

sono Anna Maria Gehnyei. Anche se sono nata in Italia, per buona parte della mia vita ho avuto la cittadinanza di un Paese che non avevo mai visto. Sono figlia di un’Italia che fatica ancora a riconoscermi in quanto tale. Forse perché sono nera o perché sono nata da genitori immigrati. Forse perché lei non vuole e non è ancora pronta al cambiamento. Per anni mi sono dovuta giustificare del perché sono italiana, del perché sono venuta al mondo, come se nascere fosse un reato. Come lei sa, il nostro Paese non concede la nazionalità per nascita sul territorio italiano da genitori stranieri. I figli di immigrati che, come me, sono nati in Italia mantengono la cittadinanza dei genitori poiché i principi di appartenenza nazionale in Italia sono fondati sulla linea di sangue e sulla bianchezza. Quello che forse non sa è cosa vuol dire nascere su questo suolo e non avere diritti, vivere nell’invisibilità appesi a un filo tra leggi e politiche.

 

Per molto tempo ho trovato insopportabile il fatto di non essere italiana anche in via ufficiale, sentivo di non poter più andare in giro bollata solo da un codice, in attesa di avere un permesso di soggiorno o la cittadinanza, né italiana né liberiana. Per anni sono stata un numero di pratica, ma quel numero non ero io, anche se finivo per identificarmici. Ricordo le file interminabili davanti all’ufficio Immigrazione. Avevo appena due anni quando una, se non due volte l’anno dovevo andare in questura a rinnovare il permesso di soggiorno. In braccio alla mamma o al papà, aspettavamo il nostro turno.

 

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Ricordo tutte le volte in cui la maestra delle elementari entrava in classe dicendo che «i figli di immigrati non arrivano lontano nella vita. Sono incapaci di studiare in quanto figli di immigrati». Il suo buongiorno era: «L’Italia è degli italiani» e non «degli immigrati che si sentono italiani». Per alcuni sono troppo nera per parlare egregiamente l’italiano, per altri sono troppo nera per essere istruita. Ciononostante partecipo alla vita politica e sociale di questo Paese. Un luogo, l’Italia, in cui il corpo nero è senza anima, un oggetto da non valorizzare o una pratica dimenticata tra gli scaffali della prefettura. Tra questi corpi sospesi vi sono bambini, ragazzi ormai divenuti adulti, scrittori, atleti e intellettuali, tutte e tutti parte del cambiamento per un futuro migliore. Sono anche loro figli dell’Italia che mira al successo e al progresso.

 

Lei non faccia lo stesso errore della mia maestra di matematica. Mi auguro che tenga conto di quell’Italia di oggi di origine straniera, che oltre a essere il presente è anche, e soprattutto, il domani. Un patrimonio dello Stato non può trovare uno spazio umano nella legge 91 del 1992. Onorevole Meloni, l’Italia che lei governa deve poter contare su una generazione che esiste, ma che viene sepolta nell’ombra. Direbbe mai a sua figlia di non realizzare i suoi più profondi desideri o di non credere al suo talento? Di rinunciare agli studi o ai suoi più grandi obiettivi solo perché è sua figlia? Le impedirebbe di vivere a pieno i suoi diritti da cittadina?

 

È solo attraverso il riconoscimento sociale che una persona può affermare la propria identità, camminare nella luce verso lo sviluppo personale. Lei conosce la verità e non può negarla. Le chiedo, dunque, di porre fine a questa guerra sottile contro i figli di immigrati. Non credo sia diversa da molte altre guerre. Un essere umano ignorato è come un figlio abbandonato, forse ucciso alla nascita.

 

Con i migliori saluti.