Il marito ucciso il primo giorno di guerra, la furia del nemico nell’inferno di Kherson. Oksana ha subito sevizie e un supplizio psicologico dalle truppe occupanti. E un chirurgo estetico le ha dovuto ricostruire il viso devastato dalle troppe violenze

«Prima di tutto voglio dire che quanto sto per raccontare è per il bene di mio marito». Inizia così l’intervista ad Oksana, vedova di guerra e vittima di torture ripetute da parte di alcuni soldati russi durante l’occupazione di Kherson. Suo marito, Oleksiy, era un militare ucraino caduto in combattimento nelle prime ore del 24 febbraio, il giorno dell’invasione, e da quel momento per la donna è iniziato un vero e proprio inferno durato mesi che l’ha portata in più occasioni a desiderare di morire.

 

«Il 24 Oleksiy mi ha chiamato di mattina presto e mi ha detto: tesoro, è iniziata la guerra. Raccogli tutte le mie cose, gli ordini, le medaglie, i certificati… tutto ciò che trovi e portalo via da casa perché potrebbe essere molto pericoloso se il nemico entra in città e non dovessimo avere il tempo di fuggire. Poco dopo, alle 3 del pomeriggio, abbiamo avuto la nostra ultima conversazione e alle 6 ho iniziato a cercarlo».

 

«Mi sono vestita e ho camminato fino al ponte Antonivskiy». Dal centro di Kherson, il ponte dista circa 10 chilometri e oggi è ancora una delle zone più pericolose della regione nonostante abbia perso ogni utilità strategica. «Sono arrivata alle 2 circa. C’era l’inferno, c’era l’orrore», qui si ferma e guarda in basso, come se quelle immagini terribili fossero ancora davanti a lei e inizia a martoriarsi le mani, «molte persone uccise, corpi straziati sulla strada, sul ponte. Ero disperata, confusa, non sapevo cosa fare». Ora sappiamo che sulla riva est, dove i russi erano già riusciti a sfondare, «ci sono stati molti… molti morti. Ho visto i militari russi farsi strada gettando corpi nel fiume».

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I soldati ucraini tranquillizzano Oksana, le dicono che il marito sta bene e la convincono a tornare a casa. Tuttavia, «alle 8 del mattino del 25 febbraio un militare mi ha chiamato per dirmi che Oleksiy era stato trovato morto sul ponte». La donna si ferma, continua a muovere nervosamente le mani stringendosi spesso l’indice della destra nell’altra mano, la voce le si spezza per il pianto e chiede una pausa. «Il suo corpo era stato fatto a pezzi e i medici l’avevano ricucito insieme, si vedevano tutti i segni». In ogni caso Oksana decide di seppellirlo «ma eravamo già in piena occupazione, non si poteva neanche uscire».

 

«Il 3 marzo, dopo 8 giorni, mi ha chiamato una donna che non conoscevo. Ha detto che potevo seppellire mio marito, ma che avevo solo un’ora di tempo». Mentre stavamo celebrando il funerale, tre soldati russi si sono avvicinati. Hanno guardato la cerimonia, si sono girati e se ne sono andati». Malauguratamente Oksana, si trattiene di fronte alla bara più del dovuto. «Quando sono rientrata a casa, ho pensato: finalmente questo giorno è finito. Ma era appena iniziato. A notte fonda ho sentito bussare alla porta. Erano i militari russi. Mi hanno prelevato di forza e portato al cimitero, proprio davanti alla tomba di mio marito, e mi ci hanno lasciato mentre si allontanavano a passo lento. All’improvviso, senza avvertirmi, hanno iniziato a sparare. Ero atterrita e non riuscivo a muovermi. Intorno era tutto buio, non si vedeva nulla, pensavo che sarei morta in quel momento». Oksana racconta di aver sentito delle risate e di essere rimasta immobile per molto tempo. Solo quando si è resa conto del freddo che la faceva tremare ha notato che i soldati russi se ne erano andati e si è incamminata verso casa «piangendo e tremando».

 

«La volta successiva, alle 2 del mattino del 13 marzo, dei soldati si sono presentati di nuovo a casa mia. Mi hanno detto che avevano ricevuto una lista dove c’era scritto che mio marito era un militare e lo cercavano. Ho risposto che era morto, sepolto ma non si sono fidati e hanno iniziato a perquisire tutta la casa. Purtroppo in camera da letto hanno trovato alcuni indumenti dell’uniforme di Oleksiy ai quali non avevo fatto caso». La situazione a quel punto precipita, «hanno iniziato a urlare che ero la moglie di un nazista e mi hanno minacciato di farmi qualsiasi cosa».

 

Dalle parole sono passati subito ai fatti. «Mi hanno messo un sacchetto in testa, mi hanno legato le mani e mi hanno caricato su una macchina. Una volta arrivati, mi hanno ordinato di spogliarmi fino alla biancheria intima perché avevano visto un tatuaggio sulla mia schiena; poi mi hanno portato nella stanza adiacente dove c’erano dei giovani. Penso fossero partigiani o attivisti ucraini arrestati ma non ne sono sicura perché nessuno parlava. In ogni caso ero l’unica mezza nuda. Uno degli agenti russi ha aperto la finestra e ricordo che tremavo, a marzo qui fa freddo come in inverno. Non mi importava cosa mi avrebbero fatto dopo, volevo solo morire in quel momento, il prima possibile».

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«Poco dopo gli agenti sono tornati e hanno chiesto: Kherson è russa?. I ragazzi hanno risposto: Kherson è Ucraina. Mettetevi in ginocchio, hanno detto gli agenti ma i ragazzi si sono alzati e i soldati li hanno colpiti alle ginocchia uno per uno. I militari sono tornati da me e mi hanno detto che se non avessi rivelato dov’era mio marito mi avrebbero fatto la stessa cosa». Oksana era terrorizzata, non parlava. «Mi hanno riportato nella prima stanza dove mi hanno fatto sedere, mi hanno legato i polsi ai braccioli della sedia e mi hanno coperto di nuovo la testa con un sacchetto prima di iniziare a picchiarmi. Poiché non sapevo cos’altro dire se non che mio marito era morto si sono arrabbiati e hanno iniziato a strapparmi le unghie; a tratti mi sembrava di svenire, ma loro nel frattempo continuavano a picchiarmi. Ho chiesto mentalmente a Oleksiy di portarmi via da quel posto, di proteggermi. Quando mi hanno buttato fuori dall’auto nella strada sotto casa mia, era già l’alba. Mi hanno scaricato a terra e hanno aspettato che qualcuno venisse ad aiutarmi perché non avevo la forza di muovermi».

 

In seguito i soldati sono tornati a casa di Oksana 9 volte, «mi hanno picchiato, minacciato, insultato, torturato con l’acqua bollente… hanno picchiato anche il mio cagnolino». Le chiedo se ha mai subito violenze sessuali durante quelle visite. «Ero molto preoccupata che mi violentassero la prima volta, quando sono stata spogliata nella prigione. Ma mi avevano picchiato talmente tanto che ero ridotta a un ammasso di carne maciullata, qualcuno mi ha anche detto che gli facevo schifo», quasi le viene da ridere e le pesanti labbra rifatte gonfiano gli zigomi, anch’essi con i segni della chirurgia estetica.

 

A causa delle violente percosse subite il 13 marzo, Oksana ha avuto bisogno di un’operazione chirurgica. «I muscoli vicino all’occhio si erano strappati durante la tortura» e non riusciva a vedere bene, «sembravo un mostro». Prende il cellulare per cercare delle foto e mostra delle immagini che non so come ha il coraggio di conservare. Si vede il suo volto tumefatto, gli occhi gonfi e neri e i segni su tutto il viso. «Mi vergognavo anche di uscire».

 

Finalmente il 14 luglio è riuscita a operarsi «ho avuto un medico molto bravo, grazie a Dio, nonostante fosse russo; mi ha anche consigliato di uscire e parlare con qualcuno, di non restare isolata. Ma io non volevo vedere nessuno, tra i vicini c’era chi aveva iniziato a chiamarmi Lady Frankenstein».

 

Oggi Oksana vive a Kherson, in una casa che la maggior parte del tempo è senza corrente a causa dei bombardamenti costanti. Attualmente è «in fase di riabilitazione» ed è seguita da uno psicologo, «ma ho molte questioni in sospeso». Nel suo appartamento ospita soldati del reggimento di suo marito di passaggio e si occupa di raccogliere cibo e beni di prima necessità che poi distribuisce al fronte. Dice che ha scritto più volte a Zelensky e al governo per chiedere un riconoscimento per Oleksiy ma non le hanno mai risposto, «hanno nominato “eroi dell’Ucraina” persone che non hanno mai combattuto, gente che non si è mai mossa da Kiev, di Oleksiy e di tanti come lui non gli interessa». Anche per questo resta a Kherson, oltre che per il volontariato: «Aiutare questi soldati è un modo per tenere viva la memoria di mio marito».