Il nostro mercato dei carburanti è il più inefficiente d’Europa. Colpa del prelievo fiscale, che gonfia il prezzo alimentando contrabbando ed evasione. Mentre le stazioni di servizio hanno in media la metà del giro d’affari rispetto a quelle degli altri grandi Paesi Ue

Su il sipario: va in scena la commedia della benzina. Una commedia all’italiana, naturalmente. Primo atto: il prezzo aumenta. Parte la caccia ai colpevoli, agli speculatori. Chi siano di preciso non si sa, ma basta la parola per far scattare le proteste di innumerevoli associazioni di consumatori. E siamo al secondo atto, con il governo che scende in campo, a parole. Terzo tempo: l’Antitrust monitora e la Guardia di Finanza indaga. Risultati? Si vedrà. Fine della storia. È un copione collaudato. L’ultima replica risale a pochi giorni fa, con lo sciopero proclamato dai sindacati dei benzinai, presunti colpevoli della recente impennata del listino dei carburanti.

 

«Noi non c’entriamo», sostengono gestori e padroncini delle stazioni di servizio, tornati sulle barricate come è già successo più volte in questi anni. Già ai tempi del decreto “Salva Italia”, quello varato a fine 2011 dall’allora premier Mario Monti, la categoria si mobilitò per protesta contro alcune misure di legge per liberalizzare distribuzione e vendita dei prodotti petroliferi. Poca cosa, in realtà, ma le nuove norme vennero spiegate come il primo passo di una riforma complessiva del settore. Obiettivo finale: favorire il ribasso dei prezzi, che in Italia viaggiano da sempre su livelli ben superiori a quasi tutti i Paesi europei. Da allora, nell’arco di un decennio, i benzinai hanno più volte minacciato la serrata e, in un paio di occasioni, hanno anche chiuso i battenti, com’è successo tra martedì 24 gennaio e mercoledì 25.

 

La macchina delle accuse e delle polemiche si è messa in moto anche la scorsa primavera, quando il mercato prese il volo per via - si disse - dell’invasione russa dell’Ucraina. Nel giro di poche settimane, complice la riduzione delle accise decisa dall’esecutivo di Mario Draghi, la tempesta si placò. Adesso siamo daccapo. La benzina venduta in Italia resta tra le più care d’Europa. Colpa della speculazione, ripetono i governi. A marzo dell’anno scorso fecero scalpore le parole di Roberto Cingolani. «È una colossale truffa a spese delle imprese e dei cittadini», tuonò l’allora ministro della Transizione Ecologica commentando l’ennesimo aumento dei prezzi dei carburanti e dell’energia in genere. A molti mesi di distanza da quelle dichiarazioni, nessuno ha ancora individuato i colpevoli del reato evocato da Cingolani. In compenso, il mercato dei prodotti petroliferi resta ingabbiato tra distorsioni e inefficienze che finiscono per scaricarsi sul consumatore finale.

 

Partiamo dalle grandi imprese petrolifere, da sempre sospettate di tirare le fila di una speculazione che amplifica ogni movimento al rialzo del greggio sui mercati internazionali. Difficile negare che le violente oscillazioni delle quotazioni del prezzo dell’oro nero abbiano garantito profitti straordinari alle aziende del settore. «Ma i margini di raffinazione (cioè i guadagni dei petrolieri, ndr) sono influenzati soprattutto dal fatto che gli impianti faticano a soddisfare la domanda di mercato», sostiene Claudio Spinaci, presidente di Unem, l’associazione di categoria dei petrolieri.

 

In sostanza, le raffinerie sono poche e obsolete. Una situazione comune a tutti i Paesi occidentali, dall’Europa agli Stati Uniti. E così, se la materia prima scarseggia o i consumi aumentano, le ripercussioni sui prezzi diventano sempre più ampie.

 

In Italia, però, come segnalano i portavoce delle aziende di big oil, il costo industriale di benzina e gasolio è tra i più bassi d’Europa. Inferiore, per esempio, a quello tedesco e spagnolo. Poi ci sono le tasse. Il prelievo del fisco di Roma (accise e Iva) non ha eguali negli altri Paesi della Ue. Questo non basta, però, a spiegare la differenza di prezzo che pesa sugli automobilisti italiani. E allora, per capire meglio, conviene guardare anche altrove. Un dato su tutti: 1,3 milioni litri. È la quantità di carburante veduta in media da ognuno dei 21.700 distributori disseminati sulle nostre strade. In Germania, Francia e Spagna si superano ampiamente i tre milioni di litri, perché le stazioni di servizio sono molto meno numerose.

 

Oltreconfine gli impianti sono più grandi ed efficienti e questo, ovviamente, finisce per influenzare anche il prezzo. Questione di centesimi, certo, perché i margini di guadagno lordi dei singoli gestori, da cui vanno poi dedotti i costi d’impresa, sono di solito compresi tra il 10 e il 20 per cento per cento di quanto incassato. Secondo del Figisc-Confcommercio, una delle associazioni di categoria più rappresentative, si va dai 17 centesimi al litro dei self-service ai 31 centesimi circa per il “servito”.

 

A conti fatti, però, l’estremo frazionamento del mercato, con una miriade di impianti piccoli o piccolissimi, contribuisce a spiegare i rincari, perché i gestori devono fare i salti mortali per far quadrare i conti e quindi, per evitare il crack, tendono a ritoccare all’insù il prezzo.

 

In passato, l’Antitrust ha più volte segnalato l’inefficienza complessiva del sistema invitando i governi che si sono via via succeduti ad avviare una riforma che favorisse la ristrutturazione della rete. Secondo l’Autorità per la concorrenza i punti vendita andrebbero drasticamente ridotti, per migliorare l’efficienza complessiva del sistema e quindi favorire una riduzione dei prezzi. Sulla stessa linea si sono schierati anche i sindacati dei gestori. Ecco la loro idea: tagliare almeno 10 mila impianti, in pratica la metà del totale, finanziando gli interventi con un apposito fondo gestito dallo Stato.

 

La proposta risale a un paio di anni fa. Da allora, però, si è fatto ben poco, quasi nulla. E così la benzina italiana resta tra le più care d’Europa, con una sorta di tassa supplementare a carico degli automobilisti, frutto dell’inefficienza del mercato. C’è di peggio. Le statistiche più aggiornate rivelano che migliaia di stazioni di servizio, almeno 5 mila, non arrivano a vendere 300 mila litri di carburante all’anno. Un giro d’affari troppo magro per garantire un profitto, anche minimo, ai titolari degli impianti. E allora, per sbarcare il lunario, resta una sola strada: evadere il fisco.

 

Numerose indagini della magistratura hanno dimostrato che il traffico di prodotti petroliferi è diventato uno dei business più redditizi per la criminalità organizzata. I proventi illeciti realizzati grazie all’evasione dell’Iva e delle accise, vengono reinvestiti «nell’acquisizione di depositi di stoccaggio e di impianti di distribuzione stradale», come ha ricordato il comandante generale della Guardia di Finanza, Giuseppe Zafarana, durante un’audizione della commissione parlamentare antimafia del maggio 2021.

 

Il virus dell’illegalità si è diffuso soprattutto tra le cosiddette pompe bianche, cioè i distributori, circa 8 mila in tutta Italia, che non sono affiliati alle grandi compagnie petrolifere. Secondo i sindacati dei gestori, le perdite per le casse pubbliche ammontano ad almeno 13 miliardi l’anno, sotto forma di mancati incassi per l’Erario.

 

D’altra parte, i benzinai legati alle organizzazioni criminali si riforniscono di carburante esentasse, per poi rivenderlo a prezzi molto inferiori rispetto a quelli dei concorrenti che rispettano le regole. I margini di guadagno per i boss di quella che è stata definita “petromafia” sono potenzialmente amplissimi, visto che il 58 per cento del totale degli incassi andrebbe versato allo Stato sotto forma di Iva e accise.

 

Un caso a parte è quello delle stazioni di servizio sulle autostrade. Qui i titolari degli impianti devono pagare ricche royalty ai gestori della rete. Secondo le rilevazioni più recenti dell’Autorità di regolazione dei trasporti, queste royalty ammontano in media a circa 6 centesimi per litro di carburante venduto. Va poi ricordato che ogni impianto autostradale deve per legge rispettare uno standard di servizio che comprende, per esempio, il presidio del punto vendita 24 ore su 24 per 365 giorni all’anno. Ecco perché il costo del rifornimento in questi particolari distributori è sempre molto più caro della media.

 

Non è una sorpresa, allora, che tra il 2008 e il 2021 la vendita di carburanti sulle autostrade sia crollata del 68 per cento. Gli esperti concordano: le stazioni di servizio, 370 in tutto, una ogni 30 chilometri, sono troppe. Il sistema delle concessioni andrebbe ripensato. Servirebbero nuove norme, una riforma attesa da anni. Invano. La politica preferisce inseguire i fantasmi degli speculatori. Per qualche voto in più.