Il presidente ha adottato una politica di spesa che ricorda quella del dopoguerra. Miliardi di dollari di aiuti a famiglie e imprese che consentiranno agli Usa di evitare la recessione

In America si è tornati al “New Deal”, il mega-piano di investimenti pubblici promosso da Franklin Delano Roosevelt fra il 1933 e il ’37 per risollevare il Paese dalla grande depressione post-1929. La doppia emergenza, pandemia e guerra, che ha portato il Paese - come tutto il mondo - in “permacrisis” (la crisi permanente fra un disastro e l’altro), ha cambiato radicalmente le coordinate economiche a stelle e strisce.

 

Dimenticati sono decenni di libero mercato al di sopra di tutto, di politica economica monetarista, di ambizione alla “trickle-down economics” (arricchiamo i ricchi perché qualcosa “sgocciolerà” sui poveri), insomma delle teorie liberiste che hanno presieduto alle scelte americane dal dopoguerra ad oggi malgrado le prediche di John Maynard Keynes, che ebbe solo la soddisfazione di varare il piano Marshall per l’Europa. Sul fronte interno invece nessuno aveva scardinato la visione “mercatista”: né John Kennedy, né gli altri presidenti democratici Lyndon Johnson (che pure aveva fatto progressi sul welfare), Bill Clinton (anzi accusato di eccessiva contiguità con Wall Street), Barak Obama (che non è riuscito a completare la riforma sanitaria). Finché si è arrivati alla massima esaltazione dell’individualismo degli anni di Donald Trump (“Winner takes it all”, uno dei suoi motti).

 

Con Biden, presidente silenzioso e apparentemente impacciato, cambia tutto. Per la verità lo Stato aveva cominciato, sotto la spinta della tragedia del Covid, già con Trump: il primo pacchetto di aiuti destinò 700 miliardi di dollari nella primavera 2020 per pagare extra-sussidi di disoccupazione da 600 dollari la settimana, e poi 70 miliardi alle aziende del trasporto locale per compensarle dei mancati viaggi dei pendolari, 80 miliardi alle compagnie aeree per permettere loro di pagare piloti e assistenti mentre non si volava evitandone il licenziamento, e altro ancora. Quasi mille miliardi di misure di supporto. Ma è niente in confronto a quanto stanziato nei due anni dell’era Biden. In totale, gli Stati Uniti hanno finora messo sul tavolo solo per interventi di ristoro dal Covid oltre 5mila miliardi di dollari: 1.800 destinati agli individui e alle famiglie con assegni di varia entità recapitati a casa, 1.700 per il business (dalle grandi aziende alla drogheria sotto casa), 745 miliardi destinati ai 50 Stati dell’unione (ai quali peraltro le singole amministrazioni hanno aggiunto somme varie per altri 1000 miliardi), e ancora 482 miliardi per la sanità (in via eccezionale le cure Covid, dai tamponi alle terapie intensive, sono gratuite), 288 miliardi per altre voci.

 

Poi, alla pandemia è seguito il rallentamento globale dovuto alla guerra e all’inflazione, e la risposta americana è anche qui generosa e lungimirante: la rivoluzione nella governance economica ha una vigorosa accelerazione. Nel 2022 arrivano i contributi a cittadini e soprattutto imprese dell’Infrastructure Investment and Jobs Act finanziato con 550 miliardi di dollari, del Chips and Science Act che vale 280 miliardi (fondamentale per affrancarsi dal dominio cinese nei semiconduttori con tutte le implicazioni politiche che ciò comporta), dell’Inflation Reduction Act da 394 miliardi, oltre a una serie di provvedimenti minori legati soprattutto all’emergenza ambientale come il programma per le energie alternative “Greenhouse Gas Reduction Fund” finanziato con 27 miliardi di dollari e gestito dall’Environmental Protection Agency. Una massa di aiuti tale da suscitare perfino la critica di Romano Prodi, che ha fatto notare che si tratta di aiuti pari a 10 volte quelli che possono ricevere le imprese europee.

 

Biden ovviamente non se ne preoccupa. Ha deciso che lo Stato federale c’è ed è vicino ai cittadini: nello spirito di Alexander Hamilton, il padre fondatore che da ministro del Tesoro delineò l’unione fiscale nella seconda metà del ’700, Washington vuole dare il suo tangibile contributo sia in termini di investimenti pubblici nonché misti pubblico-privato, sia di aiuti diretti alle fasce più svantaggiate. «Il merito di Biden sta nell’aver colto che, dopo il Covid, è cambiato l’orientamento economico globale», commenta l’economista Paolo Guerrieri, già docente alla San Diego University e ora a Sciences Po a Parigi. «Perfino il Fondo Monetario, falco dei falchi per esempio nella ristrutturazione della Grecia, dice che non bisogna trascurare gli ultimi e i governi più potenti devono guidare la lotta alle diseguaglianze. Che non a caso negli Stati Uniti, a differenza del resto del mondo, sono diminuite anziché aumentare durante la pandemia».

 

Arriva l’“helicopter money” vagheggiato da Ben Bernanke ai tempi del primo quantitative easing della Fed - l’acquisto di titoli del Tesoro - nel 2010 (c’era allora da reagire alla crisi finanziaria del 2008) che però si fermò alle banche. Ora invece riguarda direttamente i cittadini: il risultato è che la recessione pandemica è durata pochi mesi del 2020 e poi l’economia si è ripresa a razzo. Non solo: la nuova temuta recessione - dovuta alla guerra, all’inflazione, ai tassi, al rallentamento dei mercati di export - con ogni probabilità gli Stati Uniti, contrariamente alle previsioni negative dell’ultima parte dell’anno scorso, riusciranno a schivarla. «È merito della forza intrinseca dell’economia, dell’alto valore del dollaro e anche degli ingenti sussidi federali», conferma Stephen Roach, economista di Yale. «Perché le misure abbiano successo però serve la collaborazione sia delle autorità locali sia delle industrie chiamate in gioco. Non a caso buona parte degli aiuti sono sotto forma di crediti fiscali». Le amministrazioni locali peraltro hanno garantito che metteranno abbondanti ulteriori fondi. Il “forecast” diventa favorevole: nel report di gennaio, la Federal Reserve prevede una “forchetta” di crescita del Pil nel 2023 fra lo 0,5 e l’1,5%, che salirà all’1,4-2% nel 2024 e all’1,6-2% nel 2025, quando l’inflazione - che ha cominciato a scendere ed è al 7% dal 10 di quest’estate - raggiungerà il livello di sicurezza del 2%. La disoccupazione regge sui minimi del 3,5%: nel 2022 sono stati creati 4,5 milioni di lavori, secondo miglior risultato di sempre dopo il 1940. L’economia sembra in grado di riassorbire perfino l’esodo di lavoratori dell’hi-tech, che ha perso in sei mesi 150 mila addetti.

 

Il coraggio dell’amministrazione Usa con il cambio di passo e l’helicopter money, insomma, ha raggiunto lo scopo. L’anima del cambiamento porta il nome di una donna minuta ed elegante di 76 anni, Janet Yellen. Segretaria al Tesoro in carica, figlia di ebrei polacchi immigrati a Brooklyn, PhD a Yale, docente ad Harvard e Berkeley, presidente dei consulenti economici di Clinton dal 1997 al ’99 e infine numero uno della Federal Reserve dal 2014 al 2018, incappò nello spoils system di Trump e finì in panchina alla Brookings Institution finché Biden l’ha richiamata in servizio appena insediato. Moglie di un altro economista, il premio Nobel George Akerlof, condivide con lui il più genuino spirito democratico. «Non si tratta solo di misure di sostegno alla domanda - ha spiegato la ministra al Congresso - ma di ripensare l’intera politica anche dal lato dell’offerta, migliorando la posizione relativa degli Stati Uniti, restituendo loro la capacità produttiva in settori trascurati e infondendo fiducia strutturale nella nostra gente». Pensiero identico a quello di Biden, che non dimentica di essere stato eletto per la prima volta al Senato nel 1972, togliendo al favorito repubblicano Caleb Boggs il seggio nel Delaware dopo una campagna basata sul ritiro dal Vietnam e sui diritti civili con l’appoggio del sindacato Afl-Cio.

 

Secondo i più fini analisti, Biden e Yellen hanno dato un colpo agli schemi ideologici precostituiti: «Sono riusciti a dare una scossa alla domanda aggregata, restituendo fiducia a cittadini e imprese, battendo al contempo le spinte recessive derivanti dalle strozzature nelle catene del valore mondiali che rischiavano di soffocare l’economia dal lato dell’offerta», spiega Brunello Rosa, docente alla London School of Economics. «E poi hanno integrato i piani di aiuto con programmi infrastrutturali che rafforzano l’economia dal lato dell’offerta, un tempo tipica posizione del liberismo reaganiano». Un’alchimia che trova oppositori proprio a sinistra: il vecchio saggio dem Larry Summers, ministro del Tesoro di Clinton, attribuisce l’inflazione ai troppi soldi messi in circolo. E James Galbraith, economista e figlio di John Kenneth Galbraith che fu consigliere di Roosevelt e di Kennedy, ci dice dal suo studio della Texas University: «L’inflazione ha dato motivo alla Fed di rialzare troppo i tassi, una mina vagante per l’economia tutt’altro che disinnescata dai piani di investimento. Quel che è peggio è che la Fed, sotto l’influenza del mondo della finanza, ha fatto sapere che i tassi non li diminuirà per cui l’insidia sottostante rimane».

 

Il presidente tira diritto. «Un risultato l’ha raggiunto: con il suo pragmatismo - riprende Guerrieri - ha sconfitto l’antico pregiudizio che vedeva nell’economia il tallone d’Achille dei dem, come prova il favorevole risultato delle elezioni di Midterm a novembre. Per una volta il partito del presidente a metà mandato non diventa un’anatra zoppa e può continuare a far passare al Congresso i suoi progetti. Non solo: si apre un’insperata finestra di opportunità per le presidenziali della fine dell’anno prossimo». Con questo spirito, Biden affronta la rituale battaglia parlamentare per alzare il tetto al debito e tra l’altro proseguire con i piani di riarmo per l’Ucraina (15 miliardi finora). Per sua fortuna l’opposizione - si è visto con il pasticcio dell’elezione dello speaker Kevin McCarthy - è tutt’altro che forte e coesa. Vi ricorda qualche altro Paese?