Lo smaltimento delle cause arretrate si è rivelato una miniera d’oro. Gli arbitrati, formalmente scomparsi, in realtà sono tornati. Ecco quanto incassano i magistrati più vicini al potere

Duecento euro a sentenza. Lordi, s’intende. È l’incentivo che tocca a ogni magistrato del Tar o del Consiglio di Stato per smaltire l’arretrato dei loro processi. Ma l’impresa titanica di far raggiungere al nostro Paese tutti gli obiettivi del mitico Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza che impone di svuotare i cassetti dalle cause ammuffite, avrà pure un prezzo. Ai più volenterosi tocca anche il bonus: chi di ricorsi arriva a smaltirne dieci, si becca 2.500 euro.

 

La lista dei giudici amministrativi che hanno dato la propria disponibilità a percepire tariffa più bonus scorre su diverse pagine. E la cosa ha avuto anche riflessi ben più discutibili della cosa in sé. Qualche magistrato pagato a parte per celebrare i processi dimenticati si è lamentato dell’eccessivo carico di cause ordinarie, quelle già pagate dal normale stipendio, chiedendo perciò di ridurle. Con il rischio di contribuire a generare nuovo arretrato mentre si liquidava il vecchio. A cottimo.

 

Sia chiaro, il cottimo in Italia viene usato anche nell’esercizio della giustizia. Ma solo per i peones. Ne sanno qualcosa i cinquemila giudici onorari che chiedono paghe decenti. Qui, invece, se proteste ci sono state, è per la ragione opposta: cioè conquistarselo. Accadde anni fa. Poi è arrivato il Pnrr, ed è stata l’occasione per una ritoccatina alle tariffe. Con bonus incorporato.

 

E pazienza se così si incrina uno dei pilastri fondamentali della giustizia. Ma nel mondo dei magistrati amministrativi sono possibili cose inconcepibili negli altri pezzi dell’apparato giudiziario. Come certi incarichi che esulano dai compiti di un giudice, spesso compensati a parte, e lautamente, oltre allo stipendio. L’ultima scoperta, di gran moda oggi fra i consiglieri di Stato, è la presidenza di “collegi consultivi tecnici”. Nuova e assai generosa fonte di reddito privato per alcuni magistrati.

 

Il fatto è che questi 450 giudici, circa 120 del Consiglio di Stato e i restanti dei Tar, sono molto particolari. Magistrati al pari dei loro colleghi ordinari, oltre al delicatissimo compito di giudicare le cause contro la pubblica amministrazione, risultano i principali destinatari di ruoli chiave nei governi di ogni colore. Sono capi di gabinetto dei ministeri, capi degli uffici legislativi che scrivono leggi e decreti, talvolta perfino ministri. È la scheggia della giustizia più vicina alla politica, il che ne fa la magistratura più potente. Dunque intoccabile. Con una interpretazione del tutto singolare del concetto di indipendenza assoluta dal potere politico ed esecutivo fissato dalla nostra Costituzione.

 

Per di più, i giudici dei Tar e del Consiglio di Stato non rispondono al Consiglio superiore della magistratura previsto dalla Costituzione. Bensì a un proprio piccolo Csm istituito nel 1982 con legge ordinaria, presieduto dal presidente che loro stessi hanno di fatto eletto.

 

Il suo nome è Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Fino a qualche settimana fa ne era a capo un magistrato per diciotto anni in politica. L’ex parlamentare di Forza Italia ed ex ministro berlusconiano Franco Frattini: nominato un anno fa presidente del Consiglio di Stato e deceduto alla vigilia di Natale.

 

Questo singolare organo di autogoverno, composto da magistrati e alcuni membri laici designati dal Parlamento, oltre a provvedere a nomine e avanzamenti di carriera autorizza pure gli incarichi “extragiudiziali”. Anche quelli vietati come la peste agli oltre novemila magistrati ordinari. Si va dalle lezioni per i concorsi, alla giustizia sportiva, ai comitati di sorveglianza nelle imprese in amministrazione straordinaria, fino ai “collegi consultivi tecnici” di cui sopra. Non di rado in aperta collisione con le funzioni di magistrato. Ma è un dettaglio che qui passa regolarmente in secondo piano. Anche se è un problema enorme, perché può esporre i magistrati a rischi tremendi, come dimostrano le inchieste per corruzione che coinvolgono sempre più spesso giudici dei Tar e del Consiglio di Stato. Eppure la febbre degli incarichi non scende. Anzi.

 

Il 2021 è stato l’anno del record assoluto: 140 magistrati ne hanno ottenuti ben 310. Con compensi previsti per un totale di 2,1 milioni oltre allo stipendio. Cifra però calcolata decisamente per difetto, considerando che alcuni compensi verranno resi noti solo in seguito. Soprattutto i più lucrosi.

 

Si chiamavano una volta, senza troppi infingimenti, “arbitrati”. Era una forma anomala di giustizia per risolvere senza andare in tribunale le moltissime controversie che nascevano nel campo degli appalti fra la parte pubblica e le imprese private, affidata a un collegio guidato di norma da un consigliere di Stato scelto di comune accordo fra le parti. I compensi, semplicemente stellari. Il bello è che in queste cause private, giudicate da un collegio presieduto da un funzionario pubblico, lo Stato soccombeva nel 95 per cento dei casi. Dovendo per giunta pagare parcelle sontuose ai giudici che già percepivano un congruo stipendio per fare lo stesso lavoro.

 

Per decenni si fece finta di nulla. Ignorando che il flusso enorme e ininterrotto di denaro nelle tasche di questi magistrati, in molti casi titolari anche di importantissimi incarichi nei ministeri, avrebbe generato mostruosi conflitti d’interessi. Di volta in volta i vari governi giuravano di spazzare via quell’indecenza, che generava anche pericolosi rapporti incestuosi fra giudici e avvocati. Senza mai farlo. Finché un giorno si dovette dire basta. A causa degli arbitrati fra il 2005 e il 2007 il conto di alcune opere pubbliche era salito di 750 milioni. Mentre gli arbitri, magistrati compresi, si erano intascati 50 milioni.

 

Ma chiudere di colpo i rubinetti a una corporazione così potente non risultò facile. Le pressioni per riaprirli erano continue. E pian piano il muro ha finito col cedere. Prima crepa: l’”accordo bonario” introdotto nel 2016 dal codice degli appalti targato governo di Matteo Renzi. Ma era facoltativo e faticoso. Così, ecco dopo un po’ la mazzata.

 

Il 16 luglio 2020 il Parlamento ha appena approvato la risoluzione che apre la strada al Recovery fund, il gigantesco piano di contributi europei per rilanciare le economie continentali provate dalla pandemia. In Italia arriverà una valanga di denaro e il secondo governo di Giuseppe Conte sforna il decreto Semplificazioni. Lì c’è un articolo, il numero 6, che per ogni appalto di importo superiore alla soglia europea, pari a 5,38 milioni, rende obbligatoria l’istituzione di un “collegio consultivo tecnico” incaricato di sciogliere i nodi e sedare le liti. È una specie di arbitrato permanente sotto mentite spoglie, quasi a totale uso e consumo dei consiglieri di Stato. Che non devono collocarsi “fuori ruolo”, come quando assumono incarichi ministeriali, ma possono continuare a fare i giudici. Funziona esattamente come i vecchi arbitrati: il presidente, magistrato amministrativo, è scelto di comune accordo fra l’impresa e la parte pubblica. Tutto per giunta viene confezionato nei minimi dettagli dal Consiglio di Stato. Il capo dell’ufficio legislativo di Conte che partorisce la norma è il consigliere di Stato Ermanno De Francisco.

 

La stesura del regolamento viene poi affidata a una commissione presieduta dal consigliere di Stato Carlo Deodato, predecessore e successore di Ermanno De Francisco a capo del legislativo di palazzo Chigi nei governi Letta e Draghi, e oggi tornato nel cuore del potere con Giorgia Meloni, stavolta come segretario generale della presidenza.

 

E parte la carovana. Con i big presidenti di sezione del Consiglio di Stato a guidarla. A Sergio De Felice il collegio per i lavori all’università Giuliano-Isontina di Trieste. A Claudio Contessa quelli della Galleria Montebello, sempre a Trieste. A Raffaele Greco gli appalti della Metro C di Roma. A Mario Lipari la caserma Duca degli Abruzzi, La Spezia. A Carmine Volpe i lavori per una palazzina del ministero della Difesa. A Rosanna De Nictolis l’appalto dell’Anas per un tratto della Salaria. A Mario Torsello il collegio per altri lavori del ministero della Difesa, ancora La Spezia.

 

Robetta, tutto sommato. Robetta, al cospetto di chi raddoppia o addirittura triplica. Giampiero Cirillo, oltre all’incarico di presidente del collegio per l’appalto della caserma Friggeri di Roma, ha quello per l’appalto della linea ferroviaria alta velocità Napoli-Bari, aggiudicato al colosso Webuild della famiglia Salini e della Cassa depositi e prestiti. Mentre lo stesso presidente del Consiglio di Stato nonché dell’organo di autogoverno che autorizza gli incarichi, Frattini, si era già visto assegnare in meno di un anno dall’organismo che presiede (lui assente, ovvio) ben tre (tre!) presidenze di collegi consultivi tecnici. E che collegi. Il primo per la Metrotramvia di Milano, appaltata alla Cmc di Ravenna. Il secondo per il nuovo tunnel Colle di Tenda dell’Anas, assegnato a Edilmaco. Infine il terzo, a luglio del 2022, per il raddoppio della ferrovia fra Messina e Catania.

 

Dalla tavola imbandita cade anche qualche briciola. Che finisce a un giudice dei Tar o a un semplice consigliere di Stato. Nella lista si trova Anna Corrado, incaricata per un appalto dell’Autorità portuale dell’Adriatico centro-settentrionale. Ma anche Italo Volpe, presidente di un collegio per un’opera dell’Anas in Liguria, attualmente vicecapo di gabinetto del ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti.

 

Non che le cose siano filate sempre lisce. Nelle riunioni del plenum in cui sono stati distribuiti gli incarichi non sono mancati i contrari. Come Giampiero Lo Presti, che un giorno è sbottato: «La verità è che attorno agli accordi bonari prima e ai collegi consultivi tecnici poi si sono recuperati gli arbitrati». E c’è stato pure uno dei componenti laici, Marcello Maggiolo, che ha messo in guardia dal rischio di creare un «rapporto di debito-credito» con le imprese private che qualche magistrato potrebbero trovarsi di fronte nel suo ruolo di giudice. Perché la parcella viene pagata anche dalla parte privata, al 50 per cento.

 

Ma tutte le rimostranze, compresi i pochi voti contrari, finiscono nei verbali che affogano nelle carpette. All’atto di ricevere l’incarico quasi nessuno dichiara il possibile compenso. Di soldi però, è garantito, ne girano molti: anche se il gioco è iniziato da poco più di un anno qualcuno ha incassato già somme fra 150 e 200 mila euro.

 

Per capire dove si potrebbe andare a finire, del resto, basta fare i conti. Qualche caso? I componenti del collegio per l’appalto della ferrovia Napoli-Bari di cui è presidente Cirillo potrebbero incassare fino a 1,8 milioni. Più o meno quanto potrebbe spettare al collegio per i lavori sulla Messina-Catania già presieduto dal defunto Frattini. E solo per la parte fissa del compenso, perché è prevista anche una parte variabile in funzione delle decisioni prese di volta in volta. Pagata sulla base di tariffe forensi fino a 500 euro l’ora. Dulcis in fundo, al presidente spetta una maggiorazione del 10 per cento. L’esperienza si paga.

 

Il conflitto d’interessi legalizzato, invece, è gratis.