Nazionalisti putiniani contro oppositori dell’invasione. I graffitari si combattono con la vernice spray a Belgrado. Dove l’Ucraina diventa la reincarnazione della Bosnia-Erzegovina degli anni ’90

Tutto è iniziato con un murale raffigurante il presidente russo Vladimir Putin apparso a marzo scorso, poco dopo l’invasione dell’Ucraina, in un angolo di Belgrado. Dopo qualche giorno, è stato deturpato con sangue simbolico e occhiali da sole. Da quel momento, ogni giorno, e ovunque nella capitale serba, è in corso una sorta di guerra notturna tra graffitari, con gli ambienti nazionalisti che appoggiano Putin e la Russia, ritenuta nazione sorella, e gli antifascisti che vedono nell’Ucraina la metafora della Bosnia-Erzegovina degli anni Novanta.

 

Una delle persone che ha deturpato il murale è stato Pyotr Nikitin, traduttore 41enne nato a Mosca che vive a Belgrado dal 2016: «Ho spruzzato la bandiera ucraina sugli occhi di Putin due volte». Il 24 febbraio, quando la Russia invase l’Ucraina, Nikitin protestò davanti all’ambasciata russa a Belgrado, insieme ad altre persone che hanno unito le forze in un gruppo Facebook in lingua serba chiamato “Russi, ucraini, bielorussi e serbi uniti contro la guerra”, che organizzano proteste mensili e sottolineano i crimini di guerra della Russia in Ucraina e la repressione del Cremlino in patria. «All’inizio per i serbi era impressionante che ucraini e russi si unissero. Perché per loro era come se croati e serbi si fossero uniti nello stesso movimento contro la guerra negli anni ’90», ricorda.

 

Tutta la città è attraversata — assieme ai quasi 12 mila russi e a un numero imprecisato di rifugiati ucraini che sono fuggiti qui dalle sanzioni, dalla coscrizione militare e dalla guerra — da questa “guerra” allo stesso tempo invisibile e molto visibile. Alla sinistra del murale di Putin, l’autore aveva originariamente dipinto la parola «brat» (fratello). Qualcuno ha poi cancellato la prima lettera con vernice blu, lasciando la parola «rat» (guerra). Recentemente, un sostenitore della Russia ha ripristinato la «B» ed enfatizzato le altre lettere con vernice spray nera.

 

E via così: diverse lettere «Z» sono state dipinte sui muri, richiamando il simbolo delle forze armate russe, ma molte sono mutate in una «N», come quella davanti alla statua di Nikolai II, l’ultimo zar di Russia. Vicino all’Università di Belgrado, dei murales raffigurano, uno accanto all’altro, due uomini molto diversi: Joe Strummer, il defunto cantante del leggendario gruppo punk The Clash, e Stefan Dimitrijevic, cittadino serbo di 33 anni morto nell’aprile di quest’anno mentre combatteva a Luhansk per conto della Russia. Qualcun altro ha spruzzato delle «X» verdi sul volto di Dimitrijevic e sull’aquila serba sopra la sua spalla destra.

 

Una guerra tra nazionalisti e oppositori che ha una lunga tradizione a Belgrado. Lo racconta Ljiljana Radošević, storica dell’arte e curatrice del progetto Street Art Belgrado che ogni fine settimana accompagna gruppi in giro per la capitale serba, raccontandone la storia attraverso i murales. «Tutto iniziò alla fine degli anni ’80, quando artisti che si erano formati all’estero tornarono in quella che era una città triste e grigia. Quei murales, oggi, sono ritenuti un patrimonio artistico della città, difesi e curati dagli stessi cittadini. Una dinamica che, per certi versi, ha fatto di Belgrado un laboratorio dell’arte di strada impegnata politicamente».

 

Vennero poi gli anni ’90: «Belgrado era una delle città più pericolose del mondo e anche questo ha prodotto una narrazione. Oggi non poteva mancare una sorta di dibattito rispetto alla guerra in Ucraina, che si fa metafora: da un lato Putin e la Russia, questa idea della fratellanza ortodossa di fronte alla Nato, agli Usa e all’Occidente. Dall’altro, gli oppositori di questa visione nazionalista che sottolineano le corrispondenze tra l’aggressione russa di oggi e quella serba alla Bosnia-Erzegovina di ieri. Più che la storia di questo Paese, finisce per essere raccontata sui muri la diatriba tra le differenti letture dei simboli del passato. Dalla Seconda guerra mondiale ai partigiani, dai bombardamenti Nato del 1999 fino alla guerra in Kosovo, dalla religione alle lotte per l’ambiente.

 

I murales sono entrati così tanto nella vita quotidiana dei belgradesi che spesso i graffitari vengono ingaggiati dalle famiglie per ricordare un parente che è venuto a mancare. Ma è la politica che la fa da padrona, ieri come oggi, specialmente per i gruppi legati al mondo degli ultras delle squadre di calcio. Quelli del Partizan, in particolare, di estrema destra. A loro si oppongono gli antifascisti che usano i partigiani, quelli veri, per attaccare i miti del nazionalismo del passato e del presente. E all’improvviso, un anno fa, è tornata anche la guerra degli anni ’90 sui muri».

 

Nel novembre 2021 una donna viene trascinata via da ragazzotti incappucciati, prima di essere presa in consegna e arrestata. Aveva lanciato uova contro un gigantesco murale dedicato a Ratko Mladić, ex comandante delle truppe serbe nella guerra in Bosnia negli anni Novanta e condannato all’ergastolo per i crimini di guerra commessi a Srebrenica e altrove. Verrà rilasciata il giorno dopo, ma le immagini faranno il giro del mondo. Aida Corovic, con i suoi occhiali da intellettuale e la nuvola di capelli bianchi al vento, arriva trafelata dai mille impegni. È tra le fondatrici delle “Donne in Nero”, attivista e giornalista, con un passato in politica. Aida, da sempre, ha denunciato i crimini del regime di Milošević e quelli di guerra in Bosnia-Erzegovina durante gli anni Novanta. «Per formazione io non riesco a pensare al singolare. C’è un pensare, ma anche un agire, collettivo, sociale. Non potevo, non volevo girarmi dall’altra parte. Bisognava dire no a quel murale, a chi crede di farlo impunemente, a chi fa finta di non vedere. E dire no anche a quei vecchi amici e militanti. Fino a quando questo Paese e questa società non faranno i conti con le responsabilità delle guerre degli anni Novanta, non andremo mai avanti».

 

E i giovani? «Tanti, in Serbia, si impegnano nelle lotte ambientaliste, ma non si rendono conto che non esistono battaglie “a-politiche”, che molte delle loro problematiche di oggi arrivano ancora da là, dal male del nazionalismo, dal rapporto tra Stato e cittadino. Per me tirare le uova contro il murale di Mladić è un atto politico: bisogna ricordare sempre di non credere al potere e ai miti che utilizza perché gli servono per inchiodare le persone a battaglie del passato, con le quali molti dei giovani coinvolti nella realizzazione dei murales non hanno a che fare e finiscono così per essere inconsapevoli del presente. Un sondaggio tra i ventenni di oggi, anche solo un anno fa, avrebbe mostrato come loro non sappiano praticamente nulla di chi sia Mladić e di cosa abbia fatto. Eppure quest’ultimo diventa un brand, un simbolo di fedeltà alla Serbia che non ha alcun legame con la realtà, anzi la ribalta. Intanto i giovani emigrano, o devono conoscere qualcuno nell’onnipresente partito al potere per trovare lavoro, o vivono a casa coi genitori perché non hanno alcuna prospettiva. Però danno un senso alle loro giornate facendo scritte su Kosovo e guerra in Bosnia, riuscite a pensare a nulla di più assurdo?».

 

Comunque, la guerra dei murales, da quelli del passato a quelli di oggi, con la proiezione del conflitto tra Russia e Ucraina in Serbia, è una tradizione. «Questi ragazzi vengono dai margini, non hanno speranze e l’idea di essere vittime di un complotto internazionale contro il loro Paese permette di non fare i conti con il potere attuale. Quando non hai spazi pubblici per un dibattito, ripieghi sui muri», continua Aida. E lo stesso discorso, in fondo, vale per gli oppositori: «Distruggono quello in cui non si riconoscono, ma di notte. È un atto politico, solo fino a un certo punto. La verità, in Serbia come altrove, è che regimi soft come quello del presidente Vučić non hanno bisogno della violenza esplicita, tolgono giorno dopo giorno la speranza. E tutto si riduce a una lotta di murales, su temi come il passato o la guerra in Ucraina che non toccano i nervi scoperti di queste società. Dove tutti quelli che possono vanno via. Lanciare uova era importante, ma farlo di giorno, mettendoci il volto e il corpo, ecco, era un appello anche a questi ragazzi. Nessuno regalerà loro la libertà, né dal passato né per il futuro».