Afgani, siriani, pakistani e bengalesi. Ma anche africani costretti a partire per la crisi climatica. Scelgono la via interna, tra le più battute per raggiungere l’Europa. Attraversano confini su confini. Tra filo spinato, abusi delle polizie di frontiera, freddo, fame

Non c’è solo la rotta via mare. Lo sa bene Alì che in tre mesi, dall’Afghanistan, ha attraversato sette Paesi e ora è qui a Fiume, in Croazia, a riposare al sole tiepido del mattino. I suoi compagni di viaggio stanno ancora dormendo sulla banchina del binario morto della stazione, avvoltolati nelle coperte fino a sparire, come in un bozzo di lana. Alì vuole parlare e raccontare la sua storia, perché è scampato ai talebani che volevano ammazzarlo e che hanno trucidato suo fratello e suo cugino. Erano tutti e tre poliziotti in forze al governo di Ashraf Ghani.

 

«Ci ho messo sei mesi per arrivare qui da Kapisa, a Nord di Kabul. Ho attraverso dapprima il Pakistan, poi l’Iran e la Turchia. E poi dalla Turchia sono passato in Bulgaria, da dove ho iniziato a risalire i Balcani attraverso la Serbia, la Bosnia. E ora sono qui in Croazia. Ma all’imbrunire mi rimetterò in cammino verso la Slovenia e poi l’Italia», spiega Alì. Le sue scarpe sono maciullate e i suoi compagni sono così magri che è quasi incredibile come possano aver camminato per migliaia di chilometri su gambe tanto sottili. Perché la rotta balcanica è dura, aspra, faticosa, difficile. Non è percorribile da tutti. Ecco perché alla stazione di Fiume in maggioranza sono ragazzini, uomini in forze. Le donne e i bambini sono pochi. Chi non ce la fa a risalire il fianco est dell’Europa, in Turchia è costretto a pagare i trafficanti e a salire sui barconi.

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In questo piccolo avamposto sul lato della stazione di Fiume ci sono dei piccoli prefabbricati, uno con bagni e docce, l’altro è adibito a magazzino per cibo, vestiti e medicine. In fondo c’è un tendone dove i migranti possono ripararsi quando fa freddo e non si può stare all’aperto. Ma i ragazzi sono sempre troppi e molti, irrimediabilmente, restano fuori.

«Facciamo quel che possiamo. Siamo una quindicina e riusciamo a fare tutto questo grazie all’aiuto di tanti cittadini, ma soprattutto grazie all’Arcivescovado e alla Caritas di Fiume», racconta Sara, una delle volontarie che gestisce il punto d’accoglienza. Mentre indica i binari, aggiunge: «Questi poveri ragazzi non possono essere abbandonati. Ogni tanto arriva qualcuno veramente malconcio, eppure non riesce a credere che lo vogliamo aiutare. Sono così abituati a dover pagare per qualunque cosa o a essere maltrattati che non si fidano all’inizio». Sabah al khair, Sara. Ciao, Sara: la salutano come fosse una vecchia amica, anche se l’hanno appena conosciuta e tra qualche ora andranno via. È quasi tempo di rimettersi in cammino.

Dalla Croazia il viaggio riprende in direzione Slovenia, con un autobus che li porta fino a Buzet, a pochi chilometri dal confine. Da lì i migranti proseguono a piedi, ancora attraverso le montagne, sfidando la bora e magari anche un orso. Se si percorre la stessa strada in macchina, s’incrocia il muro metallico di filo spinato che segna il confine tra i due Paesi. Anche se la Croazia, ora che è entrata in Schengen, lo dovrebbe smantellare. Il cammino è tortuoso, non è una passeggiata.

«In qualche ora, se sono di buona lena, i ragazzi riescono ad arrivare al confine italiano e poi scendono verso Trieste oppure verso Gorizia». A raccontarlo sono Micol, del coordinamento di Udine, e Massimo, un attivista di Gorizia. In città, alcune persone hanno deciso che non si potevano lasciare queste persone all’addiaccio, senza coperte, cibo o acqua, specialmente d’inverno. E così, con un’efficace organizzazione in turni, il gruppo si ritrova alle 23 circa alla stazione per aiutare chi è appena arrivato dalla rotta balcanica.

«All’una di notte la stazione chiude, quindi i ragazzi sono costretti a spostarsi fuori. E così, per non farli morire di freddo, diamo loro le coperte e portiamo latte, biscotti. Per rifocillarsi un po’», spiega Massimo. Lui e Francesca, un’altra delle attiviste del gruppo, fanno prima una tappa nella sede cittadina del Forum Gorizia, che ospita un magazzino pieno di vestiti e viveri. Presi cracker, coperte e succhi di frutta, corrono alla stazione perché è quasi mezzanotte, ma ci sono ragazzi che ancora arrivano, spaesati e sfiniti. Sono per lo più afgani, siriani, pakistani e bengalesi. Ma di recente, notano i volontari, ci sono flussi consistenti dal Burkina Faso, compresi tanti bambini. «Ci raccontano di essere arrivati in aereo fino a Belgrado, capitale della Serbia, e poi di aver percorso l’ultimo tratto a piedi».

I migranti provenienti dall’Africa occidentale non sono frequenti sulla rotta balcanica, ma ultimamente sono aumentati di numero. Si sono registrati arrivi anche dal Burundi e dal Congo. Quando queste persone hanno confidato i motivi che le hanno spinte a muoversi, hanno spiegato che nel loro Paese mancano cibo e acqua. Sono i migranti climatici, cui l’Unione europea non sta dando grande attenzione. Dopo le recenti stragi nel Mediterraneo, l’interesse della politica italiana ed europea si è concentrato sulla Libia e sui viaggi per mare.

Ma, in realtà, la rotta balcanica è tra le più battute. Da lì nel 2022 sarebbero entrate in Italia circa 13 mila persone e nel 2023 il numero potrebbe facilmente essere superato. Già a gennaio, infatti, ne erano arrivate oltre 1.100. Sia perché durante l’inverno il flusso non è diminuito sia perché i trafficanti hanno raddoppiato mezzi e capacità, oltre che le tariffe. «Le polizie di frontiera ci hanno picchiato spesso o hanno chiesto soldi anche solo per farci ricaricare un’ora il telefono a una presa della corrente di una stazione di bus», racconta Faisal, anche lui afgano: «Ma nessuno ci ha spinti a partire, siamo scappati per poter sopravvivere».