Stilose, sorprendenti e determinate. Sono le donne che animano la nuova associazione femminile del Congo, sfidando il monopolio maschile. E si concedono all’obiettivo di una reporter che ha l’ambizione di raccontare il Paese oltre i cliché

C’è Blandine Nkouka, in completo blu, papillon e gilet, che con un cenno della mano invita a vincere lo stupore e ad avvicinarsi. Il suo nome d’arte è Le Messie, “il messia”. Con lei nella foto c’è Nicole Ayelassila, giacca e pantaloni a righe color malva. In tanti la chiamano La parisienne, “la parigina”. È in posa come Tsiba Bifouma, che prova un passo di danza. Occhiali scuri, foulard e fazzoletto da taschino, ha i capelli tinti di giallo, verde e rosso, come la bandiera tricolore del suo Paese, la Repubblica del Congo. Queste tre donne, tra i 43 e i 53 anni, non sfilano su una passerella a Parigi o a Milano ma sono agghindate a Brazzaville. Si fanno ritrarre sullo sfondo di un muro dipinto di rosa un po’ scalcinato, dalle parti del bar Bif, nel quartiere di Bouéta Mbongo. Sono “sapeuses”: stilose, sorprendenti e rivoluzionarie in abiti firmati, animano la nuova Association des femmes féminines du Congo sfidando il monopolio maschile dello storico movimento anti-coloniale della Sape, una parola nata dalla storpiatura del verbo francese “s’habiller” e allo stesso tempo acronimo di Société des ambianceurs et des personnes élégants, l’organizzazione dei festaioli e dei signori alla moda.

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A ritrarle è una fotoreporter di 25 anni, Victoire Douniama, che come loro non ama gli stereotipi. «Sono nata in Congo ma i miei genitori hanno voluto che ancora bambina mi trasferissi in Sudafrica con mia sorella per studiare», racconta. «Quando ho deciso di tornare a Brazzaville non sapevo cosa aspettarmi, eccetto le uniche cose che riferiscono i media internazionali, con la classica descrizione del “Paese tra i più poveri al mondo” e “dilaniato dalla guerra”». In riva al fiume Congo, Victoire ha continuato a guardare con i propri occhi, come aveva imparato a fare viaggiando da piccola. E a scattare. Momenti di vita quotidiana soprattutto, in strada o al mercato. Dove le acquirenti indossano il pagne, il tessuto tradizionale stampato a colori vivaci, ma capita di incontrare anche La parisienne, che lavora come venditrice ambulante senza rinunciare all’eleganza.

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«Quella della Sape è solo una delle storie affascinanti e inaspettate nella Repubblica del Congo», spiega Victoire. «Il movimento era nato come forma di protesta anti-coloniale, come parodia della moda europea, ma è cresciuto anche dopo l’indipendenza dalla Francia del 1960; negli ultimi anni sono arrivate le donne, con un nuovo spirito rivoluzionario, decise a sfidare la società patriarcale e a lottare per la libertà di espressione».

 

L’inizio della storia viene fatto risalire al 1922, quando un carismatico ribelle, André Grenard Matsoua, oppositore congolese a Parigi con simpatie comuniste, tornò in patria vestito da vero monsieur. Fuori dagli schemi, proprio come le “sapeuses” ritratte da Victoire: per un completo pagano anche l’equivalente di 800 euro, in Congo cinque mesi di stipendio medio. È una ribellione o una follia? Un atto di fede nei capi di Dior, Armani o Gucci oppure una loro caricatura, un originale stravolgimento che rende l’eleganza un diritto sociale, riscoprendo magari il senso di una lotta di classe? Una delle risposte possibili è che il Congo non è solo la Repubblica di Denis Sassou Nguesso, presidente-padrone al potere dal 1979 grazie ai giacimenti di petrolio, prima marxista-leninista e poi alleato dei francesi e pure dei cinesi. E non ci si può neanche fermare alle statistiche della Banca mondiale, secondo le quali una persona su due vive in condizioni di povertà estrema.

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«Capiamoci, non sono contro i media internazionali», riprende Victoire, che il mondo l’ha girato anche con le sue esposizioni in Svizzera e a New York. «Il punto è raccontare le altre storie, non solo quelle dei governi corrotti, dei conflitti senza fine o dei diritti umani calpestati sempre e comunque». Il prossimo lavoro di Victoire sarà dedicato alle comunità di pigmei Aka, cacciatori-raccoglitori nelle foreste al confine con la Repubblica centrafricana, custodi di tradizioni orali e musiche polifoniche celebrate dall’Unesco come «capolavori del patrimonio immateriale dell’umanità». L’impegno della fotografa resta proporre sguardi nuovi sul Congo, superando le descrizioni in stile “Cuore di tenebra” ancora in voga nonostante siano trascorsi più di 130 anni dal viaggio di Joseph Konrad sul vaporetto Roi des Belges in quello che allora era lo “Stato libero” di re Leopoldo. «I notiziari internazionali sembrano capaci di raccontare solo nuovi orrori», denuncia Victoire: «Come se in questo Paese non ci fosse null’altro di interessante, degno di esser visto e conosciuto da un viaggiatore o magari da un turista».

 

E non si tratta solo del Congo, quello di Brazzaville o quello sull’altra sponda del fiume, l’ex Zaire con capitale Kinshasa ribattezzato Repubblica democratica. A mettere in discussione luoghi comuni sull’Africa è però un numero crescente di autori. Prendete Moky Makura, 47 anni, ex attrice, conduttrice tv e manager originaria della Nigeria. Nata a Lagos da una famiglia di tradizione regale, si è laureata in Inghilterra e trasferita in Sudafrica, dove è divenuta famosa come conduttrice del talk show Carte Blanche e per aver recitato in Jacob’s Cross, una serie tv descritta spesso come “panafricana” perché l’attualità politica della “nazione arcobaleno” si intreccia a una riflessione sulle mille identità del continente. Moky ha lavorato nella comunicazione per la Bill & Melinda Gates Foundation e pubblicato Africa’s greatest entrepreneurs, bestseller sugli imprenditori subsahariani di maggior successo con prefazione del miliardario britannico Richard Branson.

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Le narrazioni sono al centro anche di un suo nuovo progetto, nato in tempi di pandemia di Covid-19, smart working e redazioni diffuse. Si chiama Africa no filter, come dire l’Africa raccontata senza filtri o paraocchi, ed è alimentato ogni giorno dai contributi multimediali di autrici e giornaliste connesse a Johannesburg, Kampala, Lagos o Harare. Dimenticate gli alberi di acacia nella savana al tramonto, immagine stereotipata finita sulle copertine di mille libri, come ha denunciato con amara ironia Africa is not a country, un blog nato per contrastare l’idea che il continente sia un monolite indistinto e non invece un caleidoscopio di Paesi e culture differenti tra loro. L’impegno è affrontare il «vero problema», cioè chi racconta la storia, ci spiega Moky: «Almeno un terzo delle notizie pubblicate dai media del continente sono prodotte da testate che hanno base in Europa, Cina o Nord America, e questo finisce per condizionare i contenuti rilanciando stereotipi o soddisfacendo aspettative che non sono le nostre». Bisogna allora rimuovere il filtro, raccontando le storie non viste o bypassate da emittenti globali come Bbc, Xinhua o France24.

 

I servizi di Africa no filter sono distribuiti gratuitamente a 50 media subsahariani e hanno titoli non scontati, come “Mogadiscio di notte”, “Macché diaspora, i giovani di Mauritius vogliono restare” oppure “In Zimbabwe un avvocato combatte il Covid-19 con le sculture”. L’idea è affrontare una debolezza, legata alla carenza di risorse economiche e dunque di indipendenza delle redazioni locali. «Secondo uno studio che abbiamo condotto su 60 testate dal Kenya alla Nigeria, in almeno quattro casi su cinque le notizie diffuse dai media africani su altri Paesi del continente sono hard news tutte al negativo, dedicate a conflitti, violenze elettorali o disastri umanitari», sottolinea Moky. Come e più che altrove domina il principio «if it bleeds, it leads», secondo il quale omicidi e disastri fanno copie e click. Africa no filter prova a cambiare le regole e ad approfondire le vicende «di interesse umano» senza rinunciare a qualche provocazione. Ad esempio proponendo «le buone notizie per legge», con un’avvertenza: puntare sulle altre storie non vuol dire fare propaganda in favore di questo o quel governo. Lo confermano i record di like su Facebook per un articolo su un insegnante keniano vincitore del Global teacher prize grazie al suo lavoro in una scuola di campagna oppure la tiktoker Marie Mbullu, che sul canale Habari Njema (“buone notizie” in lingua swahili) surclassa i media tradizionali sfiorando cinque milioni di visualizzazioni per post.

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Che sia ora di cambiare prospettiva Moky lo sottolinea anche in un commento per l’emittente americana Cnn, ricordando ad esempio come sei Paesi subsahariani, Namibia, Capo Verde, Ghana, Sudafrica, Burkina Faso e Botswana, stiano sopra agli Stati Uniti nella classifica della libertà di stampa World press index. Il punto a ogni modo non sono le contrapposizioni ma i mondi che si incontrano di continuo. Moky lo evidenzia parlando della prossima sfida. «Così com’è oggi, con i criteri del mercato Africa no filter non sarebbe sostenibile», ammette: «E fa riflettere il fatto che a supportare il progetto sia per ora solo una realtà con base nel continente, la fondazione del magnate nigeriano Tony Elumelu, mentre i nove donor sono tutti americani o britannici».