Un ufficiale del Congo smentisce la tesi del tentativo di rapimento per l’omicidio del diplomatico italiano. “Azione mirata di un commando venuto dal Ruanda, i soldati sapevano”

«Io e i miei familiari siamo in pericolo. Se chi vuole far calare il silenzio sul caso Attanasio mettesse insieme gli elementi che riconducono a me e avesse conferma che sono stato sentito dagli inquirenti italiani, sarei un uomo morto».

A parlare è un alto ufficiale congolese, di cui non riveliamo l’identità per proteggerlo. È lui il superteste dell’inchiesta sull’uccisione dell’ambasciatore italiano nella Repubblica democratica del Congo, Luca Attanasio. Il militare ha fornito elementi sulla tesi di un attacco deliberato e non di un sequestro finito male. Nell’agguato nel Nord Kivu del 22 febbraio 2021, oltre al nostro diplomatico, persero la vita il carabiniere che gli faceva da scorta, Vittorio Iacovacci, e un autista del convoglio del World food programme, Mustapha Milambo.

Secondo il testimone, quella dei «criminali comuni», arrestati nel gennaio del 2022 e attualmente sotto processo davanti alla corte militare di Kinshasa, «è una messinscena». «Chi ha agito proveniva dal Ruanda, supportato da un colonnello delle forze armate della Repubblica democratica del Congo», conferma l’ufficiale. «Quelli che hanno operato a Kikumba appartenevano a un gruppo strutturato, con un obiettivo politico. Ma le indagini delle autorità in Congo su questa pista sono state sospese e il fascicolo chiuso. Spetta all’Italia fare chiarezza», spiega il militare.

Già nel 2021, le informazioni della fonte erano state acquisite dagli inquirenti italiani, guidati dal pm Sergio Colaiocco, attraverso l’allora incaricato d’Affari presso l’Ambasciata d’Italia a Kinshasa, Fabrizio Marcelli. E, da quanto emerge dagli atti giudiziari, il magistrato che era nel team di inquirenti dell’Auditoriat militaire di Goma - che aveva condotto le fasi iniziali delle indagini sull’uccisione di Attanasio - aveva disposto l’arresto di alcuni soldati delle forze armate del Congo.

Secondo l’ufficiale, gli assalitori erano sul posto già dal sabato precedente l’attacco. E poco prima della missione a Goma organizzata dal vicedirettore del Wfp in RdC, Rocco Leone, era stato inspiegabilmente rimosso il posto di blocco dell’esercito istituito in località “Trois Antennes”, l’area dove poi si era consumato l’agguato. Ma a inizio marzo del 2021, quando è arrivata da Kinshasa una commissione incaricata di sovraintendere alle indagini della procura militare di Goma, l’inchiesta è stata congelata. Il comandante del battaglione che abbandonò il posto di blocco si è assunto la responsabilità della decisione ma non ha fornito spiegazioni sul perché.​

La commissione aveva liberato i fermati e non aveva ritenuto opportuno sentire il colonnello a capo dell’altro reggimento congolese impegnato nella zona.​ A volerci vedere chiaro era rimasto solo l’ufficiale che coordinava le indagini. Frustrato dall’atteggiamento dei superiori, aveva chiesto di lasciare. Al rifiuto delle dimissioni è seguito poi un repentino trasferimento a Kinshasa. E con la rimozione anche la smobilitazione dell’intera squadra che si occupava del coinvolgimento dei soldati congolesi.

Da quel momento si è proseguito solo sulla pista di un attacco di predoni. I militari sono usciti di scena: la richiesta dei tabulati telefonici dei sospetti è rimasta lettera morta. E resta un interrogativo sul passaggio senza intoppi di un altro convoglio con operatori umanitari, poco prima di quello di Attanasio. Un ulteriore indizio che porta all’ipotesi di un attacco mirato.

 

L’autrice ha appena pubblicato il libro “Le verità nascoste del delitto Attanasio” (edizioni All Around)