No, non ci sarà a breve un’invasione armata di Pechino. Ma le conseguenze peggiori coinvolgono la fine del dialogo sul riscaldamento globale

La prova di forza di Pechino a seguito della visita della speaker del Congresso degli Stati Uniti Nancy Pelosi, ha modificato gli assetti asiatici e internazionali, dando vita a un “new normal” dalle molte sfaccettature. Innanzitutto: le esercitazioni cinesi, le più vaste, più imponenti anche rispetto all’ultima “crisi di Taiwan” del 1995, sono state una grande dimostrazione di forza e proseguiranno per lungo tempo a bassa intensità. In questo modo Pechino esercita una pressione costante sull’isola, provando a fiaccare e snervare l’opinione pubblica taiwanese (come richiesto dalle strategie di “smart war” sviluppate negli ultimi anni dall’esercito cinese).

 

Ma le esercitazioni sono state, prima di tutto, una “dimostrazione”: nonostante lo show militare a Pechino pochi sono convinti che la strada militare sia la più ovvia; molti sanno che si tratta di una trappola nella quale Pechino non dovrà cadere. E questo nonostante la retorica del presidente Xi Jinping sia stata indirizzata - fin dal suo arrivo al potere - a una “riunificazione” da non rimandare più “di generazione in generazione”. Il nazionalismo cinese - tante volte ricordato durante i concitati giorni di esercitazioni militari - esiste ed è un’arma nelle mani di Xi Jinping. Ma Pechino ha già dimostrato più volte di sapersene servire a seconda dei propri bisogni: quando è necessario, quando il rischio è che il nazionalismo porti a possibili instabilità, il Partito comunista spegne con estrema cautela ogni eccesso.

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Lo sfoggio di forza militare (benché siano gli stessi organi di stampa dell’esercito a specificare che i militari cinesi ancora non sono pronti a un’invasione di Taiwan) ha nascosto i veri rischi e le vere conseguenze di questa crisi. Da un lato l’azione di “accerchiamento” dell’isola ha indicato la possibilità da parte di Pechino di bloccare ogni tipo di rifornimento a Taiwan. Anche in questo caso siamo di fronte a una simulazione, perché secondo il governo di Taipei le navi cinesi non hanno impedito il traffico commerciale. Questo ci permette di sottolineare un dato di fondo spesso ignorato: Cina e Taiwan hanno rodati rapporti commerciali; Bloomberg ha specificato che Cina e Hong Kong insieme «rimangono di gran lunga il più grande mercato di esportazione di Taiwan. Le spedizioni hanno totalizzato più di 16 miliardi di dollari a luglio, rispetto a quasi 7 miliardi di dollari di esportazioni totali negli Stati Uniti». Per questo motivo la risposta economica cinese è stata meno potente di quanto sbandierato da alcuni media: Pechino sa che non può spingere a fondo un eventuale blocco commerciale con Taipei, perché è ancora troppo dipendente dai microchip dell’isola. Se Taiwan chiudesse quel rubinetto sarebbero guai, grossi.

 

Cina e Taiwan dunque, nonostante la grande tensione, sono più realisti di tutti e lo status quo rimane l’opzione migliore per entrambi, pur inserito in un nuovo contesto dove i momenti di crisi aumenteranno.

 

Il risultato più importante di questo agosto 2022 è dunque l’interruzione delle relazioni tra Cina e Stati Uniti, che interroga anche sulla reale volontà del viaggio di Nancy Pelosi e sulla possibilità di fratture interne al mondo democratico Usa su come trattare con Pechino. Il riavvicinamento registrato nell’ultimo anno è già dimenticato, a dimostrare, probabilmente, un calcolo dei falchi all’interno del partito democratico americano: bloccare un riavvicinamento con la Cina e testare la tenuta interna di Xi Jinping. Ma le conseguenze finiremo per doverle affrontare anche noi: lo stop al dialogo sul riscaldamento globale - infatti - ci riguarda e non poco.