Le scelte di Joe Biden estremizzano le mire sull’Isola, ma per Pechino i conti sono rimandati a dopo la celebrazione del congresso del Partito comunista. E intanto la propaganda arruola anche pirati del Seicento

La questione di Taiwan è una delle poche sulla quale è possibile, ragionevolmente, generalizzare: per la maggioranza dei cinesi non c’è alcun dubbio, Taiwan è Cina ed è giusto che prima o poi torni a essere parte integrante del territorio cinese. Dall’altra parte dello Stretto, specie le nuove generazioni, sono convinte del contrario: la democrazia taiwanese, una delle più dinamiche dell’Asia, ha dato vita a una sorta di nuova identità che mal si concilia con il partito unico che dominerebbe un’eventuale scena politica post riunificazione.

 

Tra le schermaglie di queste ultime settimane, caratterizzate da voli di jet militari cinesi nello spazio aereo taiwanese, marines americani ad addestrare, da almeno un anno, l’esercito di Taipei contro un’eventuale invasione e le esercitazioni cinesi di simulazione di sbarchi compiute nel Fujian, a un tiro di schioppo dall’isola, non sono mancati i tentativi di ciascuna parte di cercare le proprie ragioni anche nella storia. Il problema è che la storia, come spesso accade, finisce per complicare l’esistente, più che risolverlo.

 

Il caso più emblematico è quello di Koxinga, o Zheng Chenggong, un eroe nazionale tanto per i cinesi, quanto per i taiwanesi, benché per motivi completamente diversi. Koxinga, figlio di un cinese e una giapponese, pirata (wokou) e lealista della dinastia Ming, verso il 1660 fu sconfitto dai Manchu che da lì a poco avrebbero instaurato la dinastia Qing su tutto il territorio cinese. Koxinga invase dunque Taiwan, all’epoca sotto il controllo degli olandesi, in precedenza i portoghesi avevano chiamato l’isola Formosa. Koxinga conquistò Taiwan ponendosi in aperto contrasto con la dinastia Qing che regnava la Cina continentale.

 

Per Pechino, Koxinga è un eroe che ha sconfitto per la prima volta una potenza occidentale, per i taiwanesi è un eroe perché ha dato una sua autonomia e indipendenza a Taiwan, tanto rispetto agli occidentali, quanto rispetto all’allora Cina. Le vicende di Koxinga non possono che ricordare quelle di Chiang Kai-shek, padre del partito nazionalista cinese che, sconfitto da Mao, ripiegò su Taiwan, dove dominò per molti anni attraverso un sistema autoritario e fascistoide, prima che Taiwan assumesse le sembianze di quello che è oggi. La storia, come detto, complica le cose: secondo l’ex diplomatico olandese Gerrit van der Wees «quando la Compagnia olandese delle Indie orientali arrivò a Taiwan nel 1624, non trovò traccia di alcuna amministrazione da parte della dinastia Ming, che governò la Cina dal 1368 al 1644. Infatti, agli olandesi fu detto dall’imperatore Ming Tianqi di “andare oltre il nostro territorio”; così gli olandesi si trasferirono in quella che allora si chiamava Formosa e governarono l’isola per 38 anni, stabilendo la prima struttura amministrativa su Taiwan. Quindi, certamente non ha mai fatto parte della dinastia Ming».

 

Taiwan divenne poi una colonia giapponese nel 1895: ci furono molte ribellioni durante quel periodo, specie da parte delle popolazioni aborigene dell’isola, che solo oggi sembrano trovare finalmente un riconoscimento sia politico, sia letterario come dimostra «il grande romanzo taiwanese» di Wu Ming-yi “Montagne e nuvole negli occhi”. I giapponesi costruirono strade, ferrovie, porti e ospedali e solo negli anni ’30 Taiwan divenne una questione nazionale. In precedenza, ha scritto Gerrit van der Wees su The Diplomat, «quando Chiang Kai-shek e Mao Zedong combattevano per la supremazia in Cina, né i nazionalisti né i comunisti si preoccupavano molto di Taiwan», salvo poi richiedere entrambi una sua liberazione dai giapponesi.

 

Le diatribe storiche servono a fomentare le opinioni pubbliche, ma sono ben chiare nella loro funzione alla dirigenza cinese. Eppure negli ultimi tempi, dall’arrivo al potere di Xi Jinping, porre fine alla «guerra civile incompiuta» è diventato un leitmotiv, anzi un requisito del «sogno cinese» e il «grande ringiovanimento della nazione cinese». Secondo John Calver, ex agente Cia proprio in Asia, ci si dovrebbe «muovere con cautela riguardo alle scadenze della dirigenza cinese». Al Brookings Institution ha specificato che «le scadenze per una eventuale riunificazione, in genere, sono state guidate più dalle dinamiche di leadership interne del Pcc che dall’ordinare una serie di operazioni volte a ottenerla militarmente, benché sia innegabile che in un futuro non troppo lontano, forse 2030 o 2035, il Pla avrà probabilmente la capacità organizzativa e bellica per un’operazione di Taiwan che gli è sempre mancata. La Cina sarà probabilmente la più grande economia e una potenza commerciale e manifatturiera avanzata ancora più dominante. Il fatto di essere un Paese in via di sviluppo non potrà più essere una scusa per una popolazione sempre più nazionalista che ha conosciuto solo l’ascesa della Cina».

 

Eppure fino a poco tempo fa, benché ci fossero periodici scontri diplomatici, lo status quo pareva andare bene a tutti: Taipei poteva proclamarsi autonoma, relazionarsi commercialmente con la Cina cercando alleati al di fuori della cerchia degli amici di Pechino; la Cina dal canto suo, con la One China policy, poteva lasciare supporre di controllare in modi diversi l’isola. A cambiare le carte in tavola sono stati due fattori: l’arrivo di Biden alla Casa Bianca e l’attuale fase di trasformazione cinese, con tutti i rischi del caso: bolla immobiliare, crisi energetica e torsione autoritaria.

 

Biden, benché già prima di lui Trump, in modo più sconclusionato, avesse sfidato Pechino telefonando alla presidente Tsai appena insediatosi alla Casa Bianca, ha richiamato i propri alleati all’ordine in funzione anti-cinese, rimodellando la propria politica estera con l’intento, sfuggito a una funzionaria della Casa Bianca, di rallentare la crescita cinese con ogni mezzo, compresa una task force ad hoc della Cia per contrastare Pechino.

 

Taiwan così, e forse suo malgrado, si è ritrovata con un alleato che dice di volerla difendere ma che ha finito per estremizzare la posizione cinese che ha ricordato a Taipei la fuga americana dall’Afghanistan come monito per il futuro e che nel proprio curriculum ha inserito di recente la normalizzazione di Hong Kong, in un momento nel quale il nazionalismo può essere un elemento in grado di distrarre la popolazione cinese da problemi ben più rilevanti.

 

Gli analisti però sono sicuri di un fatto: se mai la Cina tenterà una mossa militare non avverrà prima del 2023; l’anno prossimo infatti Pechino sarà impegnata, con il Ventesimo congresso del Pcc, a consegnare il paese per il terzo mandato a Xi Jinping. A proprio modo anche il partito unico cerca una sua legittimità. Da allora, vista l’onnipotenza di Xi, tutto potrebbe diventare possibile. Con o senza la benedizione della Storia.