Sei anni dopo la fuga di notizie che svelò i segreti dei paradisi fiscali, la prima intervista al protagonista: «Devo restare anonimo, ho toccato troppi interessi di cartelli della droga e regimi corrotti. Sono fiero delle riforme approvate, ma i politici devono fare di più»

Nel 2015 una fonte che usava uno pseudonimo, John Doe, ha contattato il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung e ha consegnato a due giornalisti un'enorme quantità di documenti riservati, più di 2,6 terabyte, provenienti dallo studio Mossack Fonseca di Panama City, una delle più importanti centrali internazionali di creazione e gestione di società offshore. I cronisti tedeschi hanno condiviso tutti quei dati con l'International Consortium of Investigative Journalists (Icij), che ha organizzato e coordinato un'inchiesta internazionale, chiamata Panama Papers, che ha unito oltre 400 giornalisti di più di cento testate di tutto il mondo, tra cui L'Espresso in esclusiva per l'Italia. A partire dall'aprile 2016 quel fiume di rivelazioni sulle offshore, le società anonime utilizzate dai vip per nascondere ricchezze nei paradisi fiscali, hanno smascherato per la prima volta migliaia di evasori, politici corrotti, narcotrafficanti e riciclatori di soldi mafiosi. Hanno spinto alle dimissioni ministri e capi di governo, dal Pakistan all'Islanda, scatenando proteste in numerose capitali contro i privilegi delle élite che non pagano le tasse. I Panama Papers hanno poi permesso a diverse nazioni, tra cui l'Italia, di avviare indagini fiscali e giudiziarie, che hanno consentito di recuperare un bottino totale, fino ad oggi, di oltre 1,2 miliardi di euro.

 

John Doe non ha mai rivelato la sua identità e fino ad oggi non aveva mai parlato pubblicamente. Ora, per la prima volta, ha accettato di farsi intervistare dai due autori dello scoop mondiale di cinque anni fa, Frederik Obermaier e Bastian Obermayer, che oggi lavorano come giornalisti indipendenti con una propria testata investigativa, Paper trail media. La versione integrale dell'intervista viene pubblicata dal settimanale tedesco Der Spiegel oggi alle 11, in simultanea con le anticipazioni concesse a L'Espresso e alle altre testate del «Team Panama Papers».

 

Come sta? Si sente sicuro?
«Sono al sicuro, per quanto posso saperne. Viviamo in un mondo pericoloso e qualche volta la situazione mi pesa. Ma alla fine sto piuttosto bene e mi considero molto fortunato».

 

Lei è rimasto in silenzio per sei anni. Non le è mai venuta la tentazioni di rivelare il suo ruolo di protagonista della fuga di notizie che ha scoperchiato gli affari segreti con le società offshore di capi di Stato e di governo, magnati dell’economia, cartelli della droga e delinquenti di ogni tipo?
«In passato avevo dovuto lottare, come penso capiti a molti, per vedere riconosciuto il mio lavoro, ma in questo caso la fama non è mai stata parte dell'equazione. L'unica mia preoccupazione era rimanere in vita abbastanza a lungo per poter raccontare prima o poi la storia a qualcuno. Avevo riflettuto diversi giorni prima di decidere di rendere pubblici i dati di Mossack Fonseca. Mi sembrava di vedere dall'alto la canna di una pistola carica. Ma alla fine mi sentito in dovere di farlo».

[[ge:rep-locali:espresso:358733977]]

Quando ha contattato la Sueddeutsche Zeitung, cosa si aspettava, cosa aveva in mente?
«Allora non avevo assolutamente idea di cosa sarebbe successo e nemmeno se mi avreste risposto. Avevo già cercato giornalisti di altre testate, inclusi New York Times e Wall Street Journal, che si mostrarono disinteressati. Poi ho contattato anche Wikileaks, che non si è curata nemmeno di rispondermi».

 

Tutte le testate del «global team» dei Panama Papers hanno pubblicato il primo articolo insieme, alla stessa ora, domenica 3 aprile 2016. Che giorno è stato per lei?
«Era una domenica come le altre, ero a pranzo con alcuni amici. Ricordo che da quel momento ho visto volare in rete migliaia di commenti. Una cosa che non avevo mai veduto prima, una vera esplosione di notizie. Mi lasciò stupefatto scoprire che anche Edward Snowden, la fonte delle notizie sulle intercettazioni di massa dei servizi segreti americani, era interessatissimo e ne discuteva personalmente. Anche le persone che erano con me hanno iniziato subito a parlarne. Ho fatto del mio meglio per comportarmi come chiunque altro stesse ascoltando quelle notizie per la prima volta».

 

Molti esperti hanno paragonato i Panama Papers allo scandalo Watergate. In quel caso la «gola profonda», il vicedirettore dell'Fbi Mark Felt, rivelò la sua identità dopo 33 anni.
«Ho pensato di tanto in tanto a Felt e al tipo di rischi che ha affrontato. Ma il mio profilo di rischio è differente dal suo. Potrei dover aspettare fino a quando non sarò sul letto di morte».

 

Perché?
«I Panama Papers coinvolgono così tante organizzazioni criminali internazionali, alcune delle quale collegate a governi, che è difficile immaginare come potrei continuare a vivere in sicurezza rivelando la mia identità. Mark Felt doveva preoccuparsi soprattutto del presidente Richard Nixon, che dopo un paio d'anni si è dimesso. Nel mio caso, è probabile che anche tra 50 anni alcuni dei gruppi che mi preoccupano saranno ancora tra noi».

[[ge:rep-locali:espresso:285191087]]

Ha mai rivelato a qualcuno il suo ruolo nei Panama Papers?
«Dopo la pubblicazione degli articoli, ne ho parlato solo a poche delle persone che mi stanno più a cuore».

 

Perché ora ha deciso di parlare?
«Avevo pensato di farlo altre volte, in questi sei anni, in periodi in cui mi sembrava che il mondo si avviasse verso la catastrofe, per cui sentivo l'urgenza di intervenire. Ma dovevo mettere sulla bilancia altri fattori. Per prima cosa, la mia sicurezza fisica e quella della mia famiglia. Poi, il fatto che il mondo è un grande spazio con una cacofonia di voci che cercano di far prevalere il loro punto di vista. Volevo che le mie parole mantenessero un significato, che non andassero perdute dopo l'ennesimo tweet di Donald Trump. Nel 2016 firmai un manifesto che denunciava il pericolo che una grave instabilità mondiale fosse vicina. Temo che oggi quell'instabilità sia arrivata».

 

Che tipo di instabilità?
«L'ascesa del fascismo e dell'autoritarismo a livello globale, dalla Cina alla Russia, dal Brasile alle Filippine, e ora anche negli Stati Uniti. L'America ha fatti errori terribili nella sua storia, ma per anni ha funzionato come forza di bilanciamento contro i peggiori regimi. Oggi quella funzione di bilanciamento ha cessato di esistere».

 

I paradisi fiscali e le società offshore sembrano avere un'importanza cruciale per gli uomini forti dei regimi autocratici.
«Oggi Putin è una minaccia per gli Stati Uniti più grave di quanto lo fosse Hitler. E le società offshore sono i suoi migliori amici. Sono le offshore, che finanziano l'apparato militare russo, a uccidere i civili innocenti in Ucraina, a pagare i missili lanciati sui centri commerciali. Sono altre offshore, che nascondono i colossi industriali cinesi, a uccidere i lavoratori minorenni nelle miniere di cobalto in Congo. Le società offshore rendono possibili questi orrori e li facilitano, rimuovendo ogni possibilità di controllo delle responsabilità. Ma senza controlli la nostra società non può funzionare».

 

Molte notizie dei Panama Papers sembrano ancora più rilevanti dopo l'attacco russo all'Ucraina. Ad esempio, uno degli amici più stretti e fidati di Putin, il violoncellista Sergei Roldugin, è stato colpito dalle sanzioni alla fine di febbraio. E la ragione principale è quello che abbiamo trovato nei Panama Papers: società offshore che possiedono miliardi, intestate sulla carta a Roldugin, ma verosimilmente come prestanome del suo potente amico. È contento di questa svolta?
«Sono felice di vedere Roldugin sanzionato. Mi sembra una mossa geniale».

 

Ha paura che il regime russo possa cercare di vendicarsi?
«È un rischio con cui convivo. I servizi segreti di Mosca hanno commesso diversi omicidi anche in pieno giorno nelle capitali europee. Il governo russo ha dichiarato esplicitamente che mi vuole morto. Ricordo che, prima della guerra, il canale Russia Today ha messo in onda un “docu-drama” in due parti sui Panama Papers: nella sigla iniziale si vede un personaggio, chiamato John Doe, con ferite alla testa provocate da torture; poi c'è un cartone animato con una barca che naviga nel suo sangue, come se fosse il canale di Panama. Per quanto bizzarro e pacchiano, non era un messaggio sottile. Anche in altre nazioni abbiamo visto personaggi potenti, collegati a conti offshore ed evasioni fiscali, ricorrere all'omicidio, come nelle tragedie dei giornalisti Daphne Caruana Galizia e Ján Kuciak. Le loro morti mi hanno profondamente colpito. Invito l'Unione europea a rendere giustizia a Daphne e Ján e alle loro famiglie. E a ripristinare la legalità e lo Stato di diritto a Malta, una delle giurisdizioni dove operava Mossack Fonseca».

 

Per l'oligarchia russa è una routine usare complesse strutture societarie offshore per nascondere la proprietà di ville di lusso, yacht, aerei privati e altre ricchezze. Come si può fermare questo?
«Penso che il mondo occidentale abbia visto per lungo tempo Putin come un fastidio, che però si poteva controllare con incentivi economici. Ovviamente, questo non ha funzionato. Per districare gli enigmi del mondo delle offshore servirebbe uno sforzo straordinario, una sorta di versione moderna del "Manhattan Project". Le capacità tecniche e informatiche esistono certamente. La questione è se ci sarà la volontà politica. Finora non ne ho avuto molta evidenza».

 

Perché non abbiamo ancora visto un whistleblower, una fonte interna al sistema come lo era lei, in Russia?
«Per diventare un whisteblower, oltre a un determinato quantitativo di coraggio, serve un certo grado di libertà. C'è bisogno di qualcun altro che lo stia ad ascoltare e ci dev'essere un desiderio di cambiare le cose. A parte il fatto che Putin fa uccidere o imprigionare chi dimostra questo coraggio, è molto difficile trovare quel tipo di libertà in un posto come la Russia».

 

Dal 2016 ad oggi sono stati pubblicati migliaia di articoli sui Panama Papers. Ci sono storie ancora inedite che il mondo dovrebbe conoscere?
«Ce ne sono tantissime. Me ne viene in mente una: un trust che gestiva assegni di comodo, creato da uno studio colombiano probabilmente per un cartello della droga, che era autorizzato a usare a Panama i conti di corrispondenza di una grande banca americana. I nomi dei beneficiari erano stampati sugli assegni con una macchina da scrivere. Definire anomale queste pratiche è un eufemismo: erano operazioni da denunciare alle autorità antiriciclaggio».

 

Quanto è soddisfatto dell’impatto dei Panama Papers?
«Sono sbalordito del risultato. Icij ha realizzato un obiettivo senza precedenti. E io sono molto contento, e perfino orgoglioso, che siano state adottate importanti riforme legali come effetto dei Panama Papers. Anche il fatto che sia stata realizzata una collaborazione giornalistica di questa scala è un vero trionfo. Purtroppo, non è ancora abbastanza. Non ho mai pensato che rendere pubblici i dati di un solo studio legale potesse risolvere il problema globale della corruzione. Sono i politici che devono agire. Bisogna rendere pubblici tutti i dati sulle società registrate in tutte le giurisdizioni, dalle British Virgin Islands ad Anguilla, dalle Seychelles al Delaware. E se sentite qualche resistenza, quello è il rumore di un politico che deve essere cacciato».