La propaganda russa fa breccia su una minoranza. La gran parte si sente solo tradita da un popolo fratello. E gli ucraini scontano reciproche diffidenze

«Se devo morire, morirò qui, a casa mia». Altrove questa frase avrebbe un retrogusto di sciovinismo, di cliché d’altri tempi, ma non nell’est dell’Ucraina dove decine di migliaia di persone vivono da mesi sottoterra in condizioni disumane.

 

Nelle cantine riadattate a rifugi antiaerei non c’è luce, gas, acqua potabile e le linee di telecomunicazione sono interrotte. Si dorme su materassi sistemati alla buona in luoghi umidi e bui e più ci si avvicina al fronte meno ore di quiete vengono concesse dai colpi dell’artiglieria. Le giornate passano lente e monotone nell’attesa degli aiuti umanitari, mentre i militari ucraini spostano mezzi corazzati e armamenti da una postazione all’altra e quelli russi si avvicinano via terra. Negli appartamenti quasi non si sale più, molti sono pericolanti e c’è sempre il rischio che un missile colpisca il palazzo proprio mentre si è dentro. E allora cos’è questa casa per la quale gli abitanti del Donbass dicono di essere pronti a morire?

 

Non è la patria, chiariamolo subito. La maggior parte di chi è rimasto qui ha più di cinquant’anni, è nato e cresciuto nell’Unione Sovietica e mantiene dei legami con la Russia, sia affettivi sia culturali, molto forti. Il russo è parlato da tutti e quasi ogni famiglia ha parenti oltre la frontiera nelle regioni di Belgorod, Kursk e Rostov. Ciò non vuol dire che siano tutti «filo-russi», come spesso li definiscono, banalizzando, i media internazionali o la stampa ucraina, ma semplicemente che i grandi cambiamenti sociopolitici che hanno sconvolto l’Ucraina dal 2014 in poi li hanno influenzati in modo marginale.

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C’è una minoranza, che quasi sempre si esprime con le parole d’ordine della propaganda del Cremlino, che crede che le bombe siano lanciate dall’esercito ucraino sul proprio territorio, che l’acqua sia dirottata verso le città dell’ovest e gli aiuti umanitari spediti altrove. Si tratta degli stessi che attendono l’arrivo dei soldati russi perché sperano di poter tornare a vivere in pace e sono persone emotivamente a pezzi. Riuscivano a rimanere impassibili di fronte al cielo che sembrava essersi rotto sopra le loro teste ma, bisognerebbe chiedersi, che costo ha quest’indifferenza? Il pianto, la paura, i tic nervosi, gli scoppi di risa improvvisi sono solo alcuni dei segni più superficiali dell’enorme carico emotivo e psicologico del quale l’invasione russa ha gravato la popolazione locale. A Siversk, qualche tempo fa, ho incontrato Sasha, un anziano che ogni giorno alla stessa ora indossava i guanti e iniziava a tagliare la legna per la brace come se fosse un lavoro. Guardava l’orologio in continuazione e si fermava a intervalli prestabiliti, dando l’impressione che si sentisse controllato da un caposquadra. La prima volta ho pensato che lo facesse per far ridere le signore che stavano sedute sotto la tettoia del palazzo fuori dai rifugi, poi invece, quando si è arrabbiato con un altro vicino che l’aveva interrotto durante il “turno” ho capito che era serio. Valentina, una delle signore, si è messa a piangere silenziosamente mentre i due uomini litigavano e mi ha detto: «Bisogna trovare il modo di passare il tempo, altrimenti impazzisci».

 

Negli stessi cortili c’è chi condanna l’invasione e l’operato di Putin pur non riuscendo a rinchiudere tutti i russi nel calderone dei nemici giurati; sono la maggioranza e non riescono a spiegarsi come un popolo «fratello» abbia potuto iniziare una guerra così violenta. Alcuni la vivono come una sorta di pugnalata alla schiena e anche questo è difficile da interiorizzare. Rendersi conto che l’ex-madre poi diventata fratello maggiore ora è il carnefice non è una consapevolezza che si accetta dal giorno alla notte, ma, almeno in questo, le bombe aiutano catalizzando i ragionamenti. In altri termini, esistono delle sfumature che, per fortuna, a cinque mesi dall’inizio della guerra, resistono alla barbarie del dualismo bellico.

 

Anche per questo tra i militari ucraini e civili del Donbass c’è diffidenza. Molti dei soldati che vengono dall’ovest o dalle regioni centrali sanno già che si troveranno a dover combattere in una terra che li accoglie con freddezza, in mezzo ai moskalì (uno dei dispregiativi con i quali gli ucraini chiamano i russi). «Guarda che posto dimenticato da Dio», diceva Dima, un tenente dei Carpazi di stanza nei pressi di Izyum: «Non c’è nulla di bello, né montagne né mare, solo questo caldo opprimente e le zanzare in mezzo a tutta quella gente che ci vorrebbe morti». Per Dima e i suoi commilitoni dell’ovest, i civili del Donbass sono ignoranti, poco affidabili e spesso li chiamano «zombie» perché «hanno il cervello imbottito di propaganda russa».

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Tuttavia, a riprova ulteriore dell’importanza delle sfumature, Dima ha dato ordine che l’ospedale militare da campo fosse aperto anche ai civili: «Dove diavolo dovrebbero andare altrimenti quando hanno bisogno di un medico?». Dal canto loro, i civili dicono di «non capire l’accento» di quei soldati, che, per chi conosce la campagna, è una sentenza dai mille significati, e temono costantemente che gli si possa sequestrare la macchina o altro in virtù della legge marziale; ma dal medico militare c’è un viavai costante.

 

Un altro elemento che ha creato forte discordia tra l’esercito e i residenti deriva da una necessità tattica. Non potendo rischiare di essere individuati dai nemici, gli artiglieri di Kiev sparano da una posizione e poi si nascondono in mezzo ai palazzi, sotto gli alberi delle vie periferiche, nei capannoni agricoli. Per i difensori, è una strategia efficace, la stessa, ad esempio, che gli ha permesso di resistere a Lyman così a lungo, ma i civili vedono solo che dopo il passaggio delle truppe ucraine i russi bombardano e colpiscono le loro case. Inoltre, da quando l’esercito di Mosca ha occupato le città di Rubizhne, Lysychansk e Popasna, le distanze da coprire si sono ridotte significativamente e i bombardamenti sulle città ancora in mano ucraina sono effettuati con armamenti desueti, vecchi mortai dell’epoca sovietica, fondi di magazzino stipati in qualche armeria nelle regioni lontane dell’enorme territorio russo. Armi molto meno accurate di quelle contemporanee, spesso colpiscono fuori bersaglio, creando scompiglio e devastazione tra i residenti e lasciando sul campo molte vittime casuali.

 

Possibile che neanche tutto ciò basti a convincere una persona a lasciare questa terra martoriata?

 

Fuori Soledar, l’anziana Alina raccontava di dover rimanere per suo figlio che a breve sarebbe stato richiamato, non poteva permettere che a sera l’uomo trovasse una casa vuota. Suo figlio, senza farsi sentire, replicava che non poteva lasciarla lì da sola e che sarebbe stato impossibile staccarla dalla casa che si era sudata lavorando nelle ferrovie. Tale interdipendenza è abbastanza comune in Donbass, i giovani dicono di non poter abbandonare gli anziani e questi ultimi sentono di non aver nessun altro posto se non la propria comunità.

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Eppure, tutti sanno che a breve l’esercito russo riprenderà la sua avanzata verso Slovjansk e Kramatorsk, le due città più importanti della regione di Donetsk e le prossime fortezze designate. Sono settimane che qui si ammassano uomini e mezzi, da quando la ritirata da Severodonetsk era già in corso ufficiosamente. Ora i soldati ucraini dicono di essere pronti: «No pasaran», come piace dire a molti citando il motto del Fronte popolare spagnolo impegnato nella lotta ai franchisti durante la guerra civile.

 

Mi sono sempre chiesto se pronunciando quella frase (spesso alzando il pugno chiuso) abbiano contezza del fatto che chi gridava quelle parole nel ’36 faceva parte di una coalizione con una forte componente comunista e nella quale l’Unione Sovietica, il nemico di oggi, aveva un ruolo di primo piano.

 

È impossibile intavolare una discussione così nel breve spazio di un controllo documenti o di una sigaretta davanti a uno dei pochi chioschi aperti. Ma è significativo notare che l’Ucraina di oggi è un coacervo di sentimenti di ribellione all’oppressore, storicamente anti-autoritari, di nazionalismo esasperato, agli antipodi, di parole d’ordine prese dalle varie lotte di resistenza dell’ultimo secolo e di ardore patriottico ottocentesco. Il tutto filtrato dalla cultura di massa e reso inoffensivo all’occorrenza. Un mondo in cui resistono, tuttavia, nutrite sacche di popolazione legate a un’epoca ormai tramontata, che in questa complessità faticano a ritrovarsi e, anzi, ne hanno paura. È questa la casa della quale si diceva all’inizio, la sicurezza data dai luoghi consueti, accanto ai vicini di una vita, ai parenti più anziani e a quelli visti crescere. La stessa familiarità che crea la paura dell’ignoto, di un mondo diventato troppo grande per chi è nato più di mezzo secolo fa o di un Paese sconosciuto per chi non è mai neanche andato in gita a Dnipro. Alcune di queste persone si attaccano alla tradizione, impersonificata dalla Russia, altri solo al luogo geografico percepito come unica certezza in un momento storico in cui, letteralmente, tutto intorno crolla.