Il caso più eclatante inizia nel 2008 quando un pentito racconta dei ricatti di un luogotenente che lavora alla procura di Padova ed è legato all’allora presidente della Regione

Inchieste antimafia che nascono in Sicilia e muoiono in Laguna. Figli di boss che si muovono a proprio agio tra armi, droga e affiliati. Servitori dello Stato che spifferano, ricattano e pilotano le indagini. Nord-Est, terra vulnerabile ai giochi e ai segreti delle mafie.

 

Una delle vicende più eclatanti risale al 2008: un’importante famiglia mafiosa decide di investire 8 milioni di euro per la riqualificazione del porto di Chioggia, dove in un’area industriale dismessa sorgeranno 80 appartamenti. Nella provincia tranquilla e produttiva tra Padova e Venezia, di fronte agli schei non si guarda in faccia a nessuno. Nemmeno agli emissari della famiglia Lo Piccolo, che dopo l’arresto di Bernardo Provenzano ha preso il controllo di Cosa Nostra. L’affare di Chioggia però non andrà mai in porto. Il 24 settembre del 2008 la Dda di Palermo arresta l’avvocato Marcello Trapani, legale dei Lo Piccolo, con l’accusa di associazione mafiosa e svela il progetto di Cosa Nostra nel Nord-Est, ricostruito grazie ai pizzini recuperati dagli investigatori in un cestino dei rifiuti. Fin qui la storia conosciuta. Perché l’avvocato Trapani a quel punto decide di collaborare: racconta ai magistrati siciliani un pezzo di Cosa Nostra, in quegli anni di contesa al vertice tra i Lo Piccolo e il trapanese Matteo Messina Denaro. Nasce così un altro filone investigativo che parte da Palermo, intreccia i veleni del palazzo di giustizia di Padova, i centri di potere veneti e la maxi inchiesta sul Mose.

 

Tutto nasce da un rapporto di polizia del 28 aprile 2009 inviato ai pm antimafia di Palermo, in cui si riferisce che il collaboratore di giustizia ha iniziato a raccontare i retroscena dell’investimento dei Lo Piccolo in Veneto. Parla di cene di «massoneria» a cui avrebbe partecipato a Padova insieme a imprenditori, primari, avvocati, magistrati, militari e ufficiali di polizia, introdotto dal cugino, un maresciallo della Guardia di finanza all’epoca in servizio a Chioggia.

 

Il nucleo speciale di polizia valutaria della Guardia di finanza di Palermo riempie pagine di verbali e manda tutto alla Procura di Padova. Dove i magistrati sono in grave imbarazzo: nel racconto del collaboratore è emerso un nome che non si aspettano, quello di un sottufficiale dei carabinieri in servizio nella loro stessa procura. «Luogotenente Franco Cappadona», annota la Finanza. È un militare da trent’anni responsabile della polizia giudiziaria a Palazzo di giustizia. Considerato da tutti il braccio destro del procuratore Pietro Calogero, il magistrato di ferro che indicò la prima pista nera sulla strage di Piazza Fontana che portava ai neofascisti di Franco Freda. E che il 7 aprile 1979 fece arrestare i leader di Autonomia Operaia con la clamorosa accusa di associazione sovversiva e banda armata.

 

Nel racconto del pentito, il carabiniere non risulta coinvolto in vicende di mafia, ma è descritto come un militare che «apprende notizie di reato e va a ricattare vari imprenditori». Il luogotenente, secondo Trapani, si sarebbe anche occupato della campagna elettorale di Giancarlo Galan, allora presidente della Regione Veneto, «riuscendo a raccogliere la somma di 500 mila euro» da alcuni imprenditori. Come? «Faceva delle cortesie gli diceva tu sei indagato, non sei indagato, deve venire la Finanza, deve venire il carabiniere», prosegue Trapani.

 

Il fascicolo della Dda di Palermo trasmesso a Padova provoca inquietudine negli ambienti giudiziari della città veneta. Per il ruolo che ricopre da anni, Cappadona gode della fiducia di molti pubblici ministeri. Su tutti, il procuratore Calogero che in quelle settimane sta per lasciare l’incarico di procuratore capo a Padova per assumerne uno ancora più prestigioso: procuratore generale di Venezia. La delicata indagine viene affidata al pm Vartan Giacomelli, che per prima cosa si occupa delle «cene di massoneria» e, sentiti i protagonisti, archivia tutto. È il luglio del 2012. L’inchiesta su Cappadona parte solo a questo punto, cioè tre anni dopo la trasmissione degli atti da Palermo. Viene iscritta «a modello 45», nel registro degli atti che non costituiscono notizie di reato, e archiviata nel gennaio del 2014, non essendo stato possibile «acquisire elementi concreti» sui presunti ricatti del carabiniere. La pista di un suo ruolo nella campagna elettorale di Galan invece non viene approfondita.

 

Ma il suo legame con il «Doge» riemerge in un’inchiesta successiva per cui sarà condannato in via definitiva. Cappadona, oggi in carcere, nell’aprile del 2013 riesce ad avvisare un’amica di Galan che il Gico di Venezia sta indagando sulla sua lussuosa villa di Cinto Euganeo. Poi lo chiama direttamente, mentre si trova in Parlamento, per assicurarsi che lei l’abbia informato. Alla fine viene condannato a 2 anni e 5 mesi. Il militare poi si beccherà altri 4 anni per tentata concussione: nel 2010 l’avvocato Andrea Drago, direttore dell’Arpav, finisce indagato per corruzione. Si scoprirà che gli esposti contro di lui venivano ispirati da Cappadona che poi si occupava anche delle indagini. La verità viene ristabilita con fatica quando Drago, ormai, ha la reputazione distrutta. Nell’ufficio di Cappadona in Procura i carabinieri trovano un «promemoria» con informazioni personali sul conto dei colleghi che indagavano su di lui. E nello studio di un avvocato considerato suo complice era conservato un dossier per distruggere i suoi nemici, intitolato «Promemoria caso Terminetor (sic)». Uno degli scandali più imbarazzanti della giustizia veneta. Che nel febbraio del 2017 finisce di nuovo sotto i riflettori, quando si scopre che il figlio di Totò Riina, in soggiorno obbligato a Padova, conduce una vita disinvolta consumando cocaina e incontrando pregiudicati per mafia. Il tribunale di sorveglianza gli revoca la libertà vigilata e lo trasferisce lontano dal Veneto.

 

Nei primi mesi del 2019 a Padova spunta dal nulla il figlio di un altro boss, Angelo Siino, «ministro dei lavori pubblici» di Cosa Nostra negli anni ’80, che viveva sotto falso nome nell’ambito di un programma di protezione: si è sparato un colpo alla tempia con una Beretta 98 Steel nel suo appartamento di Borgoricco, nel Padovano. In una cabina armadio nella sua camera da letto i carabinieri trovano un vero e proprio arsenale: 107 tra pistole e fucili, in gran parte storici o da collezione, e 578 proiettili. Armi che valgono decine di migliaia di euro, tutte regolarmente intestate alla convivente, una casalinga di Milano. La signora viene indagata per omessa custodia di armi e al pm di Padova, Silvia Golin, dichiara di avere ricevuto gran parte dell’arsenale dal compagno, Giuseppe Siino. Carabinieri e questura di Padova trasecolano: nessuno aveva idea che quell’imprenditore nato in Germania, dipendente di un’azienda chimica, fosse in realtà il figlio di Siino. Il sistema centrale di protezione non aveva autorizzato la convivenza con la compagna, perché era fuori dal circuito di tutela. E non aveva mai saputo nulla del suo arsenale segreto.