È un giovane medico indiano che ha vissuto nove anni in Ucraina, finché la guerra non ha distrutto la sua casa e interrotto i suoi studi di chirurgia. Invece di tornare, ha deciso di raggiungere Záhony per restare ad aiutare le centinaia di rifugiati che ogni giorno attraversano la frontiera

Per Anmol Gupta, di Rorkee, in India settentrionale, aiutare gli altri è una questione di famiglia. «Mio padre aveva un salvadanaio enorme sulla scrivania, pieno di rupie. Un giorno gli chiesi a cosa servissero tutte quelle monete e mi rispose che erano per i bambini che volevano comprarsi dolci e caramelle». Anmol ha ventinove anni ed è medico, come il suo bisnonno, suo nonno e suo padre prima di lui. Ha studiato a Kharkiv per nove anni e da 27 giorni è a Záhony, confine ungherese con l’Ucraina, per aiutare chi fugge dalla guerra. A questa scelta lo hanno portato due punti di svolta e una rinuncia che sembra non pesargli sulla testa, mentre nel tendone allestito dagli altri volontari ripercorre le ultime settimane della sua vita.

È arrivato in Ucraina nel 2013, se il conflitto non fosse scoppiato all’alba di quel giovedì 24 febbraio in pochi mesi avrebbe concluso la sua specializzazione in chirurgia. «Il giorno prima, mercoledì, ero uscito con i miei amici. C’era una serata karaoke. Sono tornato a casa alle 3, due ore dopo ho sentito dei rumori. Non sapevo fossero i suoni della guerra. Un mio amico militare mi ha mandato un messaggio: “Anmol, è iniziata”. Terrorizzato, l’ho raggiunto a casa sua». Per due giorni hanno dormito con addosso scarpe e giacca, pronti a correre lungo i cinque piani che separano l’appartamento dal piano terra e l’androne dal rifugio sotterraneo della metro in cui avevano trovato riparo. «Era l’inferno, lì sotto si gelava di freddo e di paura. Al secondo giorno ero stufo di scappare, mi sono detto “non è da te”. Dovevo iniziare a fare qualcosa». Lascia l’appartamento dell’amico e torna nel suo, con alcuni vicini ucraini inizia a sistemare i seminterrati degli edifici nelle vicinanze. «Li abbiamo puliti e allestiti con panche e sedie lungo il muro, portando anche delle coperte per riscaldarsi e far dormire più comodi i bambini».

Il primo punto di svolta è il fragore di un’esplosione. Una bomba colpisce il palazzo accanto al suo e frantuma i vetri delle finestre. Le persone sono terrorizzate, tutti scappano in direzione del rifugio. «Tranne me, io non correvo. Mi importava solo di urlare agli altri di far presto a mettersi in salvo». L’idea di tornare in India non lo sfiora, ancora non sa che comporterà un prezzo molto alto da pagare. Decide di restare in Ucraina e spostarsi verso ovest, a Leopoli. «Nel rifugio avevo conosciuto una donna anziana, voleva andare anche lei. C’era il coprifuoco dalle 16 alle 6, ci siamo ripromessi di chiamare un taxi per raggiungere la stazione l’indomani». Ma nei giorni della guerra il centralino non funziona e così Anmol e la signora ci arrivano a piedi, percorrendo 12 chilometri. Poco dopo esplode una bomba vicinissima a loro, la donna terrorizzata inizia a correre. «Non sarai mai più veloce degli scoppi, cammina» le ho detto. E così hanno fatto, raggiungendo la stazione di Kharkiv un’ora e mezza dopo.

Aspettano sui binari fino a sera, accalcati con le altre persone, spostando il peso del corpo sulle punte e sui talloni. «Ogni tanto scherzavamo per alleggerire la tensione, poi non so come ce l’abbiamo fatta e siamo saliti sul treno. Era stracolmo, abbiamo dormito sul pavimento. Ci sono volute 15 ore per arrivare». A Leopoli Anmol vede decine di volontari e chiede se può anche lui fare la sua parte, ma la trafila burocratica è troppo lunga. La signora con cui ha condiviso il viaggio fino a quel momento parte con la figlia che è venuta a prenderla dalla Germania e Anmol scopre grazie a dei conoscenti che a Záhony c’è bisogno di qualcuno che accolga le centinaia di rifugiati che arrivano ogni giorno. Ci arriva il 5 di marzo ma non sceglie subito di restare.

«Raggiunto il confine i poliziotti mi hanno chiesto il passaporto e mi hanno portato al luogo per il riconoscimento dei documenti». In questa cittadina ungherese che conta poco più di 4mila abitanti, l’accoglienza si snoda tra due tende bianche. Una più grande, con i volontari sorridenti e il cibo caldo, e una più stretta, dove le persone aspettano ore per farsi controllare passaporto e documenti. All’arrivo Anmol entra nella seconda. «Ero spaventato, dopo un po’ ci hanno fatto salire su un autobus diretto a Tarpa, a quaranta chilometri da qui, per ulteriori controlli. Io avevo il numero 188, è ancora impresso nella mente, ma la fila era lenta e avevo davanti a me ancora un centinaio di persone. Quindi ho deciso di ingannare il tempo aiutando gli altri, chiacchierando con loro per farli distrarre o cercandogli qualcosa da mangiare». È il secondo punto di svolta, come a Kharkiv, quando la gente terrorizzata scappa e lui aspetta siano tutti al sicuro prima di raggiungerli nel rifugio. Così anche a Tarpa, distante migliaia di chilometri da quella che per nove anni è stata la sua casa, Anmol che è ancora un rifugiato si comporta già da volontario. Però ancora non lo sa. Conclusa la parte burocratica raggiunge un amico a Budapest, ma appena scende dal treno capisce che non fa per lui. «C’era un senso di calma innaturale, mentre a Záhony era il caos. Ed era dove anche io mi ero sentito solo, perso. Perché quando sei quasi libero hai paura ed è in quel punto di frontiera che serve aiuto, non nella capitale, dove una volta arrivato puoi andare ovunque. Dovevo tornare e così ho fatto».

«Nei primi giorni della guerra avevo anche pensato di arruolarmi. Ma da medico la mia missione è salvare vite e non ero pronto a rischiare così tanto la mia. In India ho una famiglia che voglio rivedere e tanti progetti da realizzare, non posso morire adesso». Lo dice e ride, poi elenca i piani futuri sulla punta delle dita: aprire un centro per persone disabili, uno per donne sole e un altro per bambini orfani. «Non so ancora dove, so solo che lo farò. E che non delegherò a nessuno. Non metto in dubbio la dedizione con cui potrebbero farlo gli altri. Solo, non sarebbe la mia». Questa scelta gli è costata molto. Anche se suo padre raccoglieva le rupie nel salvadanaio e ogni domenica sua madre cucinava un pasto in più per i bisognosi, la sua famiglia non gli parla più. «Sono fieri di me, hanno detto a tutti gli amici e i vicini che sono un volontario, ma sono anche spaventati e arrabbiati perché non sono con loro. La comunicazione ora è ridotta al minimo, ogni giorno gli mando solo un messaggio: “Sto bene, tutto ok”». I suoi hanno provato in tutti i modi a farlo tornare, offrendogli persino di mandare qualcuno a prenderlo direttamente a Kharkiv. Ha rifiutato e ha risposto che non aveva paura. Il momento più duro è stato quando sua madre ha smesso di risponderli, lì era pronto a salire sul primo aereo. «Per fortuna ho parlato con una mia amica e con mio zio, gli unici che mi conoscono davvero e mi hanno detto di restare. Perché sapevano che me ne sarei pentito. Se sono qui è grazie a loro».

A Záhony Anmol non ha turni, fa avanti e indietro tra le due tende in base agli orari dei treni. Avrebbe una stanza in hotel, ma preferisce dormire nella tensostruttura della polizia «così è più scomodo e sono più reattivo». Ogni giorno accompagna i rifugiati a sedersi sulle panche di legno, li aiuta a portare le valigie o i trasportini. E poi sorride. «Ho sacrificato la mia famiglia per aiutare chi ha perso tutto, e non so se è la decisione giusta. Ma per ora va bene così».