Emanuele Mancuso ha iniziato a collaborare una settimana prima della nascita della bambina. L’ex compagna ha fatto di tutto per indurlo a ritrattare ed è stata condannata. Ma la bimba, che ha cambiato nome, resta a vivere con lei

Lui, 34 anni, Emanuele Mancuso, collaboratore di giustizia di peso. Più per quel che sa che per quel che fatto. Lei, 30 anni, ferma nell’intenzione di non rescindere alcun legame con la famiglia mafiosa dell’ex compagno. In mezzo, una bambina contesa che oggi ha 4 anni e un altro nome. Il padre, tornato libero ma sotto scorta, può vederla meno di un’ora a settimana, in una località protetta, diversa e distante dalla casa, anche questa protetta, in cui la piccola vive con la madre. E in condizioni che definisce «spaventose»: ambienti sporchi e operatori ostili. 

 

Quando era detenuto, poteva vederla 4 ore ogni sette giorni e nell’area giochi del carcere. La bambina è affidata ai servizi sociali ma la mamma è rimasta con lei. Per il tribunale dei minori di Catanzaro e poi per quello di Roma sarebbe questa la migliore condizione possibile. Con il paradosso però che il padre “pentito” deve stare a debita distanza e con i contatti ridotti all’osso. La madre, invece, che si ostina a non seguire l’ex compagno e a contestarne la scelta, può crescere la piccola, percependo anche l’assegno di mantenimento versatole dallo Stato che ha in custodia Mancuso.  

 

Una storia singolare che si colloca al centro di una infinità di paradossi. Tradiscono l’inadeguatezza delle norme e l’impossibilità di applicare anche solo il buon senso ai casi limite che il codice non contempla. Sullo sfondo, quella stessa terra, la Calabria, dove da tempo altri magistrati, non senza obiezioni e polemiche, hanno intrapreso la linea della sospensione della patria potestà ai genitori di mafia, invocando il supremo interesse dei minori ad avere esempi di riferimento positivi.

 

Qui le cose vanno al contrario. Tanto più che proprio la scelta di Mancuso legato a una famiglia di ’ndrangheta pura, alla sbarra a Lamezia Terme nel processo Rinascita Scott, ha a che vedere proprio con la nascita della figlia. Una settimana prima del parto, nel 2018, per assicurarle un futuro diverso, il padre, arrestato tre mesi prima, si è dissociato dalla mafia. La madre al contrario ha già una condanna a 4 anni per violenza aggravata dal favoreggiamento al clan per aver cercato di indurre l’ormai ex compagno a rivedere la propria scelta.

 

E la bimba resta la più formidabile delle armi di pressione che vedono ora lui, assistito dall’avvocato Antonia Nicolini, costretto ad appellarsi alle più alte cariche dello Stato. Denuncia un «subdolo accerchiamento» che rischia davvero di fargli venire la tentazione di ingranare la marcia indietro. Pur di poter crescere sua figlia come un normale padre separato.