L’artista cilena Voluspa Jarpa trasforma in opere le carte da 007 e le informazioni riservate che hanno cambiato la storia

Dovremmo parlare più di oblio, e meno della memoria. Abbiamo parlato poco, pochissimo, di una strategia del potere in senso largo che va avanti da molto tempo (forse da sempre?): narrare solo parti della storia, e nascondere le altre. Dobbiamo riflettere sull’oblio, sull’uso dell’oblio da parte del potere. Non è la richiesta che viene dal mondo degli storici, bensì da un’artista. Un’artista visuale cilena, Voluspa Jarpa, che da almeno quindici anni conduce il suo processo artistico dentro gli archivi diplomatici e dell’intelligence, soprattutto quelli statunitensi, e nelle carte dei magistrati latino-americani.

La sua ultima mostra, allestita nello spazio Zac dei Cantieri Culturali della Zisa, a Palermo, dove la Fondazione Merz opera già da oltre un anno, è l’imponente descrizione di quello che non sappiamo. Che non ci viene detto, o meglio, ci viene nascosto, fino a che le autorità deputate non decidono di declassificare, di mostrare un documento. Con i segni della censura, spesso: tratti pesanti di pennarello nero coprono parole, frasi, nomi. Fino al paradosso di cancellare, in questo modo, intere pagine: gli interi documenti desecretati.

È una cascata di strisce srotolate quella che accoglie chi visita, all’interno della mostra “Isolitudine”, l’installazione dell’artista cilena intitolata “False flag”, “Falsi Bersagli”, e curata da Beatrice Merz. Le strisce composte proprio da quelle pagine ricordano, a prima vista e in versione gigantesca, i distruggi-documenti in uso quando la carta era ancora essenziale, per chi doveva gestire un archivio e anche per chi, al contrario, voleva distruggere prove. E in effetti, è un elenco infinito di documenti diplomatici declassificati quelli che Jarpa ha messo insieme.

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La Storia, in effetti, ha fatto irruzione nella vita di Jarpa quando l’artista aveva due anni. L’11 settembre 1973, Salvador Allende viene assassinato. Una morte che fa precipitare il Cile nell’abisso della dittatura di Augusto Pinochet, sostenuto dagli Stati Uniti. La Cia, in quegli anni, interviene con tutta la sua potenza per cambiare il corso politico deciso dai cittadini di molti Paesi dell’America Latina. Sono gli anni bui, in cui la scelta è tra una vita sotto la dittatura o, invece, l’esilio.

Affascinante e intenso è il modo in cui prende la Storia e ne fa un campo di indagine artistica. «Mi sembrava interessante vedere il potere, guardare in faccia il potere, anche in questa azione di declassificare i documenti», dice l’artista: «Ci si può chiedere: ma perché gli Usa declassificano i loro segreti? Credo che lo facciano per dirci: questo è il potere, è nelle nostre mani, e dunque, proprio per questo, possiamo manipolare quello che si sa e quello che, al contrario, non si sa. È diverso, insomma, leggere un documento di Wikileaks e, dall’altra parte, osservare un documento che il proprio sistema di potere ha reso accessibile, e che contiene tutti i segni, le impronte di come questo sistema di potere continua a pensare alla relazione tra potere e informazione. È importante vedere, leggere, sapere ciò che questi documenti dicono, e allo stesso tempo ciò che dicono le stesse cancellazioni. La censura. In quello che è cancellato con un pennarello nero, c’è la dimostrazione del potere». Il segno nero sui documenti desecretati ma comunque censurati rappresenta, insomma, l’uso deliberato dell’oblio. Ciò che non è stato raccontato deve continuare a essere coperto, censurato, perché altrimenti cambierebbe la stessa memoria degli eventi storici.

Le ricadute di questa narrazione della storia sono evidenti nel popolo, in chi dovrebbe conoscere la propria storia e, invece, riesce solo episodicamente a intuire qualcosa. Jarpa cita le riflessioni di Naomi Klein, secondo la quale un popolo che non conosce il suo racconto, la sua narrazione, è un popolo che vive in uno stato di shock. «Non sa quello che gli è successo, ed è per questo che non sa quello che gli sta succedendo», spiega l’artista: «Perde il suo racconto, perde la possibilità di comprendersi. Negli ultimi venti anni abbiamo messo molta enfasi sulla memoria, molta meno sull’oblio. Io credo che una parte della incoscienza storica del popolo abbia a che fare con operazioni attraverso le quali si sceglie cosa dimenticare e cosa far dimenticare, perché non comprendano quello che hanno vissuto».

L’esempio che fa Jarpa non è in America Latina. Riguarda invece l’Europa. L’Italia. «Quello che mi fa impressione è quanto poco la gente sappia dell’Operazione Gladio, e dell’importanza che ha avuto nel determinare il divenire politico dei Paesi europei tra gli anni Sessanta e Ottanta», sottolinea l’artista: «E mentre in America Latina ci sono stati colpi di stato violenti attraverso i quali i militari hanno preso il potere, in Europa si è utilizzata una strategia adatta a una società traumatizzata dalla guerra per cui, attraverso piccoli attentati, si riviveva proprio l’orrore e il terrore della guerra». Una lettura straniante, e allo stesso tempo un’ipotesi su cui ragionare: la strategia della tensione poteva essere legata alla memoria della guerra, visto che la generazione che rappresentava la rete connettiva del Paese era quella che aveva vissuto sulla sua pelle il secondo conflitto mondiale?

L’ipotesi è affascinante, e al tempo stesso pone una domanda sulla differenza tra un’indagine artistica e lo scavo dei documenti condotto da una storica. Dove ci si può incontrare? «Ci si incontra sul metodo, talvolta, sul modo in cui si indaga il documento. Per me, come artista, sono però importanti due elementi. Non cerco solo informazioni, cerco il simbolo. Non cerco solo la storia, mi interessa anche il livello simbolico di quella storia».

C’è dunque anche una dimensione etica, in ballo. Come passare tutto questo a chi vede, in una mostra, la storia occultata e poi solo parzialmente svelata dal potere. «Il segreto ha prodotto in noi una sorta di infantilizzazione, per la quale vogliamo ascoltare solo storie belle e a lieto fine», conclude l’artista: «Quello che, invece, ci dice questa storia è che dobbiamo essere più adulti. Dobbiamo essere capaci di guardare il potere, altrimenti resteremo sempre cittadini in attesa di empatia».