Seminare il panico lontano dal fronte è il nuovo obiettivo di Mosca, che colpisce infrastrutture e centrali elettriche. Per fiaccare la resistenza nelle città e minare le capacità produttive di Kiev

Gli ucraini ora parlano di «guerra del terrore» ma l’espressione si è caricata di una valenza simbolica talmente forte da trascendere il semplice richiamo alla paura. Il terrore è quello della minaccia nucleare, di restare senza corrente, né gas né acqua ora che l’inverno è alle porte e il clima rigido si imporrà come un nuovo nemico, quello dei bambini nei rifugi al buio sotto le bombe, ma anche quello degli attacchi inattesi, dei palazzi sventrati e delle infrastrutture pubbliche diventate bersagli. E la cosa più singolare è che ogni volta che uno Stato vuole accusare qualcuno o qualcosa di sovvertire la convivenza civile o il cosiddetto ordine democratico, evoca il terrorismo. Lo stanno facendo gli uomini dell’Ayatollah Khamenei in Iran, escludendo accuratamente da ogni discorso pubblico i riferimenti alle proteste o al malcontento popolare. «Sono terroristi stranieri», dice Khamenei, e come per uno strano potere semantico, tutto il discorso rientra in un alveo già noto fatto di repressione, infiltrati e proclami retorici.

 

Allo stesso modo si esprime il presidente russo Vladimir Putin accusando gli ucraini di atti di terrorismo contro il ponte di Crimea, la base della marina militare di Sebastopoli o le città del Donbass separatista. Il «regime ucraino» lo chiama Putin, quando vuole sottolineare l’illegittimità delle azioni di Kiev, «dal 2014 opera contro la nostra gente». Peccato che quella stessa gente che il leader del Cremlino definisce «sua» da otto anni vive in una terra di confine ed è usata da Mosca solo come pedina in un gioco molto più ampio.

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Per gli ucraini è diverso, innanzitutto perché sono le città del vasto territorio di Kiev a essere bombardate e non quelle russe. In secondo luogo, per le ricadute che questi attacchi hanno sulla vita quotidiana di milioni di persone e sul loro futuro prossimo. Pensare di dover affrontare i freddi mesi invernali avvolti in strati di coperte dentro cantine umide o garage scalcinati metterebbe a dura prova la resistenza psicologica di chiunque. Anche perché la consapevolezza che dopo nove mesi di guerra il peggio deve ancora venire è un’idea avvilente che succhierebbe ogni goccia di energia da chiunque, dopo aver spremuto la rabbia e l’odio da quanti riescono ancora a permettersela.

 

Dunque, una prima conclusione è che il cambio di strategia russo ha buone probabilità di dimostrarsi efficace. Bombardare le centrali elettriche, le sottostazioni urbane, gli snodi principali della rete del gas, le condutture dell’acqua spaventerà la popolazione civile ucraina e ne fiaccherà il morale (nonostante le dichiarazioni dei politici di Kiev). Tutto ciò è inevitabile. Se finora un ucraino di Leopoli, di Ivano-Frankivsk, o di Ternopil aveva della guerra un’esperienza diretta piuttosto scarsa, fatta principalmente di notizie dai media o dagli affetti coinvolti nelle forze armate e da pochi bombardamenti sporadici nel corso dei mesi; se questo stesso ucraino poteva dire «resisteremo fino alla fine» perché il fronte si trovava a migliaia di chilometri, ora tutto cambierà. L’obiettivo dei russi e del nuovo comandante in capo delle forze congiunte che operano in Ucraina, Sergey Surovikin, è palese: portare la guerra nelle case di tutti gli ucraini, soprattutto di coloro i quali finora hanno sorretto la fragile economia del Paese.

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Il presidente Zelensky dopo le armi ha iniziato a chiedere sempre più insistentemente i soldi. Almeno 17 miliardi di dollari subito e tra i 2 e i 3 miliardi al mese per non far crollare tutto. «Ne abbiamo bisogno adesso», ha sbottato il carismatico capo di Stato nei giorni scorsi a margine di un incontro internazionale. Forse perché, al netto della necessità di tenere alto il morale dei suoi uomini al fronte e dei milioni di civili dai Carpazi a Kharkiv, il governo di Kiev sa che per quanto impietosa la nuova strategia dei russi potrebbe scatenare una serie di reazioni a catena negative che avrebbero, giocoforza, ripercussioni anche sul campo di battaglia.

 

Diversi media hanno presentato il massiccio bombardamento di lunedì 31 ottobre come una risposta all’attacco alla flotta russa del Mar Nero di stanza a Sebastopoli. A Mosca hanno accusato direttamente Kiev dell’attacco, puntando il dito anche contro l’intelligence britannica. Per la controparte si è trattato di un errore delle truppe russe impegnate nella manutenzione, anche se stavolta il coinvolgimento ucraino è sembrato palese fin dall’inizio. Sia come sia, secondo un comunicato ufficiale del ministro della Difesa russo, Sergei Shoigu, «tutti gli obiettivi designati sono stati colpiti». Il che rende evidente che il bersaglio dei missili russi fossero effettivamente le infrastrutture energetiche ucraine. Si consideri che anche l’attacco del 10 ottobre, il primo su larga scala di questa nuova fase, era stato considerato da molti una risposta all’esplosione del ponte sullo stretto di Kerch che collega la Crimea alla Russia continentale. Tuttavia, molto probabilmente, Mosca aveva già in mente di operare questo cambio di strategia al fine di fiaccare la resistenza nelle città lontane dal fronte e di minare le capacità produttive del Paese nemico.

 

Possiamo dire che la tattica sta funzionando: i civili sono tornati a vivere nei rifugi sotterranei e i proprietari delle attività commerciali che avevano gradualmente ripreso l’attività si sono convinti in fretta a richiudere i battenti. Per quanto riguarda l’economia nazionale già provata da quasi nove mesi di guerra, il danneggiamento delle reti infrastrutturali primarie di acqua e corrente impone una serie di priorità nella spesa del governo di Zelensky che non possono che aggravare la situazione dell’erario.

 

Uno dei giganti dell’energia ucraina, l’azienda Dtek, è stata pesantemente colpita dagli attacchi russi che qualche settimana fa ne hanno preso di mira la sede centrale a Kiev. Ora, il direttore esecutivo, Dmytro Sakharuk, ha fatto sapere di aver esaurito le scorte di attrezzature per la riparazione della rete elettrica. Dopo aver dichiarato danni per oltre 40 milioni di dollari, Sakharuk ha affermato che «il costo delle attrezzature ora si aggira sulle centinaia di milioni di dollari». Anche la ditta pubblica nazionale Ukrenergo ha annunciato difficoltà simili ma si è soffermata di più sui tempi necessari alle riparazioni e sul fatto che in futuro le interruzioni di corrente dureranno di più. Per questo, il governo ucraino, dal leader ai ministri, continua ad accusare il Cremlino di essere uno «Stato terrorista» e chiede al mondo di riconoscere questo status a livello giuridico internazionale.

 

Anche perché la Russia non si perita affatto di minacciare Kiev o l’Occidente che se la situazione dovesse farsi insostenibile e «la sopravvivenza stessa della Federazione russa messa in pericolo», il ricorso all’arsenale nucleare sarebbe legittimo. Si tratta dello spauracchio definitivo del terrore, è evidente; la minaccia della distruzione di massa e dell’escalation globale. Ma il potere «deterrente» delle testate nucleari è anche questo, la capacità di incidere nella realtà pur venendo solo evocate. Dopo aver trascorso la fine dell’estate in apprensione per quella che sembrava una corsa sempre più spedita verso la minaccia nucleare, a fine ottobre lo stato maggiore russo ha effettuato dei test di lancio in puro stile Guerra fredda.

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Gli americani non si sono troppo scomposti: «Si trattava di operazioni di routine e ne eravamo stati avvisati», ha dichiarato Ned Price, il portavoce del dipartimento di Stato Usa. Tuttavia, dall’altro lato dell’Oceano il presidente americano Joe Biden non ha fatto altro che ripetere in ogni occasione possibile ammonimenti più o meno minacciosi al suo omologo russo. Nel frattempo, sui media internazionali si legge che gli Usa potrebbero anticipare dalla primavera prossima alla fine di quest’anno l’arrivo in Romania e Polonia della nuova versione delle bombe a gravità B61-12.

 

Il che rappresenta una minaccia nei fatti. Ma stranamente, nella sua ultima uscita pubblica, il presidente Putin ha dichiarato che «non c’è alcun bisogno di usare armi nucleari al momento, né dal punto di vista militare né da quello politico». Sappiamo che potrebbe trattarsi solo di una mossa mediatica, come quando si definivano le esercitazioni al confine con l’Ucraina «manovre militari di routine» lo scorso inverno.

 

Tuttavia, al di là delle previsioni sugli sviluppi del conflitto, c’è un pericolo imminente con il 40 per cento delle infrastrutture energetiche ucraine inutilizzabili e decine di migliaia di nuovi coscritti in arrivo sui fronti, mentre Surovikin tenta di rendere tutto il territorio ucraino simile a ciò che è stato il Donbass per anni.