Teheran fornisce ai russi i droni che bombardano le città, Erdogan arma Zelensky, mentre Israele non cede lo scudo antimissile a Kiev. I difficili equilibri sopra i cieli

Le sirene della contraerea squarciano l’alba delle città ucraine, come non succedeva dall’inizio della guerra. Il cielo si riempie di uccellacci neri, simili a giganteschi pipistrelli, che producono un ronzio fastidioso come quello di assordanti tagliaerba. E infatti, “tagliaerba”, o “motorini”, sono soprannominati dai servizi d’intelligence occidentale, i droni iraniani lanciati a sciami dall’aviazione russa soprattutto su obbiettivi civili: rete elettrica, linee ferroviarie, dighe, acquedotti, con l’intento palese di logorare la volontà di resistere della popolazione ucraina.

 

Come questi ordigni volanti senza pilota chiamati loitering munitions, munizioni vaganti, perché capaci di girovagare a lungo sopra l’obbiettivo in attesa che si scopra per poi colpirlo distruggendosi contro di esso, e per questo detti anche droni-kamikaze, siano finiti nell’arsenale di Putin è uno dei rebus tattici di questa guerra.

 

Teheran nega di aver fornito i droni Shahed 136 e Mohajer 6, di questi modelli si tratterebbe, alla Russia, pur ammettendo che tra i due Paesi esistono accordi per lo scambio di tecnologie. Ma gli apparati di sicurezza americani, israeliani e ucraini si dicono certi della loro provenienza dalle fabbriche di armamenti della repubblica islamica. Così come dell’obbiettivo strategico che l’ingresso, senza precedenti, dell’Iran in un grande conflitto nel continente europeo lascerebbe intravedere.

 

Dando il proprio sostegno al tentativo imperiale di Putin di sottomettere l’Ucraina, ritengono alcuni analisti occidentali, il regime iraniano punterebbe a rafforzare il suo disegno egemonico sul Medio Oriente, sperando di distrarre l’Occidente dalla lotta per il primato che, direttamente e attraverso milizie e governi alleati, Teheran conduce nel Levante. Dall’altro lato, i vantaggi per Mosca sarebbero evidenti: grazie ai droni kamikaze, Putin cerca di capovolgere la narrazione attuale della guerra che vede la Russia dalla parte perdente, guadagnando tempo nella speranza che l’inverno produca quel colpo di spugna alle molte deficienze palesate dall’esercito invasore e indebolisca la volontà del nemico.

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Pur non appartenendo alla fascia alta della tecnologia militare, o forse proprio per questo, il drone Shahed-136 (Shahed vuol dire martire, in farsi) è in grado di provocare notevoli danni. Capace di volare a bassa quota per centinaia di chilometri, dotato di una struttura (approssimativamente) “stealth”, relativamente invisibile ai radar, non è facilmente individuato dalle difese antiaeree. E comunque, il suo impiego a ondate, o sciami, garantisce sempre che, anche se intercettate, alcune di queste bombe volanti, munite di cariche esplosive da 35-40 chilogrammi, centrino gli obbietti designati.

 

L’altro grande vantaggio degli Uav iraniani è che costano poco, intorno ai 20.000 dollari ciascuno. Da qui la facilità con cui l’Iran riesce a piazzare i suoi droni nel mercato mondiale dei Paesi più sfavoriti: Sudan, Yemen, Tagikistan, ma anche Venezuela (che sarebbe un Paese ricco se non fosse stato colpito dalle sanzioni americane) nei cui modesti arsenali i droni iraniani rivestono il ruolo di arma segreta dei poveri.

 

Niente di paragonabile con gli Uav (Unmanned Aaerial Vehicle, o aereo senza pilota) di fabbricazione turca, schierati dall’esercito ucraino sin dall’inizio della guerra. Un Bayraktar TB-2, capace di sparare missili di precisione, costa oltre 5 milioni di dollari. Il fatto è che anche i droni iraniani possono servire allo scopo.

 

Secondo l’intelligence britannica, totalmente impegnata a fianco dell’apparato miliare di Kiev, lo scorso 12 ottobre, la contraerea ucraina ha abbattuto il 60% dei droni lanciati dai russi, mentre il 20 ottobre ne avrebbe distrutto l’86%. A questi dati vanno però aggiunti quelli forniti dal governo di Kiev secondo cui la campagna di bombardamenti a tappeto contro obbiettivi civili lanciata da Mosca, dopo l’esplosione dell’8 ottobre sul ponte di Kerch che collega la Russia alla Crimea, avrebbe provocato la distruzione del 40 per cento delle infrastrutture usate per produrre energia elettrica e il 50 per cento della quantità di corrente distribuita, oltre a gravi danni alla rete idrica. Il che ha materializzato lo spettro incombente sulla popolazione ucraina di un inverno al freddo, al buio e tormentato dai razionamenti.

 

Da qui l’offensiva diplomatica lanciata dal presidente Volodymyr Zelensky, di concerto con l’Amministrazione americana, per convincere Israele a cedere all’Ucraina quello che viene considerato il miglior sistema antimissile in circolazione, utilizzato per intercettare razzi a media velocità indirizzati su piccole città: il cosiddetto Iron Dome, o Cupola di Ferro, sperimentato con successo da Israele contro i razzi lanciati dalle milizie islamiste di Gaza e i droni degli Hezbollah Libanesi. Costo di una singola batteria, da 20 missili del sistema Iron Dome: 50 milioni di dollari.

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Ora, la richiesta di Zelensky va ben oltre l’emergenza contingente provocata dai droni iraniani. Il leader ucraino ha tentato in tutti i modi di ottenere il sostengo materiale della potente macchina bellica israeliana, considerata una delle più moderne ed efficienti al mondo. Ma non c’è stato verso. I governanti israeliani non hanno mai offerto ai loro colleghi ucraini più di una certa collaborazione d’intelligence e aiuti di tipo umanitario.

 

Secondo Zelensky, invece, i dirigenti israeliani non stanno capendo qual è la posta in gioco nella partita ucraina. E lo ha detto chiaramente intervenendo al forum sulla democrazia organizzato dal quotidiano Haaretz. Dall’inizio della guerra, ha spiegato Zelensky, i russi hanno lanciato 4500 missili contro l’Ucraina. Il loro arenale si sta consumando, per questo hanno ordinato 2000 Shahed all’Iran. «Come pensate che pagheranno per questi droni?». Secondo il presidente ucraino Putin non pagherà in dollari ma aiutando l’Iran a realizzare il suo sogno di possedere la bomba atomica.

 

Ora, quello relativo al progetto nucleare iraniano è forse l’argomento più sensibile della politica estera israeliana, persino più della questione palestinese. Eppure i governanti dello Stato ebraico restano titubanti davanti alle richieste di Zelensky. Non vogliono perdere, dicono, la libertà di movimento di cui, grazie a un’intesa tra Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu, hanno finora goduto in Siria, dove, con centinaia di incursioni, hanno colpito decine di obbiettivi iraniani, mentre i militari russi, accorsi in Siria nel 2015 per difendere il rais Bashar el Assad, facevano finta di non vedere. Questa intesa con Mosca ha finora funzionato. L’esercito israeliano ha potuto condurre così la sua “guerra tra le guerre” all’Iran. Aprire un secondo fronte contro la Russia sarebbe assai rischioso.