Si accredita come ponte tra Oriente e Occidente, intrattiene relazioni con la Russia di Putin e nel frattempo apre al mondo arabo. Inoltre con una sfilza di misure populiste in funzione anti-crisi prova a farsi rieleggere. Ma stavolta il suo piano potrebbe fallire

Dopo il quarto incontro consecutivo con il presidente russo Vladimir Putin in Kazakistan, a metà ottobre, Recep Tayyip Erdogan ha detto: «Non abbiamo tempo da perdere». Parlava della creazione di un “hub” in Turchia per lo smistamento e il trasporto del gas russo verso l’Europa. Ma ha soprattutto messo in evidenza il ruolo sempre più centrale che sta giocando in questi mesi la Turchia, distante da una Nato diffidente e da un’Europa sempre più dipendente.

 

Il gasdotto, chiamato TurkStream e in funzione già dal 2020 (trasporta oggi 31,5 miliardi di metri cubi di gas russo all’anno verso l’Europa), permetterebbe, con un potenziamento, di evitare l’Ucraina e i gasdotti sabotati nel Mar Baltico, rendendo la Turchia un passaggio obbligato.

 

Una delle mosse che ha evidenziato la volontà di Erdogan – alle prese con una crisi interna da risolvere – di portare avanti una diplomazia veloce e concreta. Tesa ad accreditare il presidente come mediatore internazionale e il suo Paese come potenza continentale sullo scacchiere internazionale, indipendente in egual misura da Oriente e Occidente.

 

Oltre a creare i presupposti per un futuro incontro con il presidente siriano Assad e mediare un sempre più realistico accordo di pace nel Caucaso fra Armenia e Azerbaijan (rispolverando il progetto di avvicinamento dell’Asia centrale turcofona), Erdogan ha trattato la ripresa del trasporto di grano e uno scambio di prigionieri tra Mosca e Kiev. Il vero obiettivo di Ankara rimane però quello di un cessate il fuoco che porti a un accordo di pace fra i due Paesi.

 

Tuttavia, i legami politici e commerciali di Erdogan con la Russia hanno fatto imbestialire Bruxelles e Washington, indecise su come trattare l’alleato diventato indispensabile tanto sul grano quanto sul gas ma considerato “pericoloso”.

 

Dalle relazioni con Putin, Erdogan ha incassato un aumento del proprio export e un prestito di 8 miliardi che gli serve a rimpolpare le esigue riserve della Banca centrale, oltre a uno sconto sul prezzo del gas. Decisiva la scelta di non legarsi le mani rifiutando di aderire alle sanzioni occidentali nei confronti della Russia ma approvando solamente quelle delle Nazioni Unite con annessa condanna dell’invasione in Ucraina.

 

La posizione equidistante della Turchia – parte della Nato dal 1952 – sulla guerra in Ucraina, visto che vende anche armi a Kiev, è lo specchio di prossimo riposizionamento. È ciò che intravede anche l’ammiraglio Cem Gürdeniz, analista politico di stampo liberale che si oppone al governo Erdogan: «La Turchia non ha bisogno della Nato, rimane all’interno perché vuole difendere i propri interessi ma sapendo benissimo che oggi è diventata uno strumento dell’egemonia angloamericana». Secondo Gürdeniz, uno dei motivi per cui Erdogan potrebbe allontanarsi dalla Nato è il sostegno indiretto degli Usa al Pkk: «Perché essere alleati di qualcuno che sostiene un movimento terroristico nel proprio Paese?» si chiede polemicamente Gürdeniz.

 

La Nato, dal canto suo, considera la Turchia come un membro infido e alcuni esponenti hanno considerato la possibilità di sollecitarne l’espulsione. E la situazione non è migliorata dopo il no della Turchia alle richieste di adesione di Svezia e Finlandia, sospese proprio per via del veto di Ankara. Erdogan ha preteso una prova di lealtà chiedendo l’estradizione di terroristi del Pkk che vivono nei due Paesi e ha bollato come «promesse» le rassicurazioni ricevute.

 

Un altro segnale d’allarme per Europa e Stati Uniti è dato dalle relazioni disastrose che la Turchia intrattiene con la Grecia per via di rivendicazioni territoriali, condite da accuse sul mancato rispetto di accordi storici di convivenza pacifica e di violazione dei confini, spinte al limite dell’escalation militare.

 

«Se fosse per me, la Turchia dovrebbe uscire dalla Nato, dall’unione doganale europea, abbandonare la richiesta di adesione all’Ue e allontanarsi dai diktat occidentali. Se ci sono economie fiorenti come la Cina e l’India, perché bisogna continuare a sottomettersi a chi ci considera un peso, inferiori, un pericolo e vuole controllarci dicendo di essere nostro amico?», si interroga Gürdeniz rivendicando il proprio nazionalismo, condiviso da una gran fetta della popolazione indipendentemente dalla collocazione politica rispetto a Erdogan.

 

Il quale, dal canto suo, trae il massimo del vantaggio da questo sentimento diffuso di amore-odio fra Ankara e l’Europa, giocando sul filo del ricatto proprio mentre si guarda intorno e altrove.

 

Per alleviare i suoi problemi economici la Turchia non si è rivolta soltanto a Russia e Cina ma ha approfondito anche la cooperazione con il Qatar, riallacciando rapporti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, aprendo ai fondi di investimento per decine di miliardi di dollari. Un ulteriore elemento della disinvoltura delle alleanze strategiche arriva da Purnima Anand, la presidente del forum internazionale dei cinque Paesi emergenti del Brics: ha riferito che tra gli Stati interessati ad aderire l’anno prossimo alle intese di cooperazione economica c’è anche la Turchia.

 

Il Paese, infatti, vive da mesi ormai un momento di difficoltà economica, con la caduta del 27 per cento della Lira, un’inflazione al 90 per cento, e una situazione di difficile convivenza con i milioni di rifugiati siriani ancora in territorio turco. Il governo, attraverso la Banca centrale (che ha cambiato il direttore tre volte nell’ultimo anno), ha deciso di tagliare i tassi d’interesse arrivati fino all’11 per cento (il che porterà il deficit del Paese al 6,4 per cento del Pil).

 

In un momento di grandi vittorie diplomatiche, quindi, Erdogan e il suo governo devono gestire un conflitto interno dovuto soprattutto alla crisi economica che potrebbe esacerbarsi con l’avvicinarsi delle elezioni presidenziali previste per giugno 2023. Rispecchieranno le tensioni nella società turca contemporanea, che vede opporsi i nostalgici di un’occidentalizzazione forzata kemalista, ormai passata alla storia, a chi appoggia valori più consoni alle radici, riesumando la religione islamica e guardando ad altri lidi per costruire un futuro economico più solido.

 

A ciò si aggiunge una legge sui media ratificata dal Parlamento a metà ottobre. Prevede fino a tre anni di reclusione per chi «diffonda notizie false tra il pubblico, sia all’estero che all’interno del Paese». Una legge considerata “pericolosa” dagli oppositori del governo e che colpirebbe soprattutto i piccoli media del Paese, ma che Erdogan reputa «impellente per la sicurezza e la pace dei turchi».

 

Elementi di debolezza che l’opposizione al partito per la Giustizia e lo Sviluppo (Akp), presieduto da Erdogan, potrebbe sfruttare per indebolire la propria posizione. Ma la minoranza è disunita e priva di un leader carismatico che possa contrastare la campagna politica del presidente, iniziata già da settimane. Sebbene l’Akp fosse dato in netto svantaggio nelle ultime settimane la tendenza è cambiata sull’onda delle contromisure di stampo populista annunciate da Erdogan per contrastare l’aumento vertiginoso dei costi della vita. Ha tradotto, per esempio, lo sconto sulla vendita del gas con uno slogan a beneficio della popolazione più colpita dalla crisi: «Nessuno avrà freddo». E grazie ai fondi di investimento esteri e a un turismo in ripresa ha annunciato di voler costruire 500 mila nuove abitazioni a basso costo nei prossimi 5 anni destinate a famiglie in difficoltà. Un progetto da 49 miliardi di dollari, con 3 milioni di richieste già arrivate. Ha poi aumentato il salario minimo nazionale, gli stipendi degli statali, eliminato gli interessi sui prestiti per gli studenti, incentivato le esenzioni fiscali per i commerci. E giurato che «l’inflazione ritornerà normale a febbraio», dovendo scommettere sul breve tempo, consapevole che lo spazio di manovra per conquistare il consenso degli indecisi è estremamente ridotto.

 

E mentre la Turchia si impone come un ponte fra Est e Ovest, tenendo in scacco l’Europa, l’Occidente non sembra intenzionato a riconoscerne il ruolo. In questo quadro, le elezioni del prossimo anno rischiano di trasformare il Paese in una polveriera. Alle prese con la battaglia elettorale, Erdogan giocherà tutte le carte a disposizione per rinsaldare prestigio e potere. Le spinte dell’opposizione per contrastarlo finirebbero per giocare su un terreno di posizioni estreme per conquistare porzioni di elettorato ostili al presidente ma ideologicamente oltranziste.