Dichiarare l’orientamento sessuale costituisce una barriera. Innesca discriminazioni, paure e traumi. Eppure non serve solo a darsi un nome, ma a vivere la propria vita

Non è fare pace con sé stessi né col mondo circostante. Fare coming out è la tappa finale di un lungo percorso di consapevolezza che non dovrebbe mai diventare un compromesso al ribasso. Eppure, ancora oggi in Italia dichiarare il proprio orientamento sessuale equivale a tracciare una linea su una spiaggia soggetta alle mareggiate della politica e della società. A ricordarlo non sono soltanto i disegni di legge contro l’omolesbobitransfobia e le terapie di conversione, accantonanti rispettivamente in Senato e in Parlamento nel 2020 e 2016.

 

A due anni dalla presentazione della Strategia europea per l’uguaglianza Lgbt, soltanto lo scorso 6 ottobre il ministero delle Pari Opportunità ha comunicato l’adozione di una strategia nazionale di prevenzione per «rafforzare la tutela dei diritti delle persone Lgbt» e «promuovere la parità di trattamento e la non discriminazione». Un testo che non fornisce l’entità delle risorse da utilizzare né una finestra temporale: un’occasione mancata in un Paese dove chi fa coming out ne paga spesso il prezzo con l’espulsione dalla famiglia o l’ostracismo sociale.

 

Alessandro Commisso ricorda con serenità il suo coming out: «Mi rendo conto di essere stato fortunato», ammette oggi a 35 anni. Qualche anno fa ha scelto di prendere posizione pubblicamente, dichiarandosi gay, in un contesto lavorativo aperto come quello anglosassone: «Parlare di questo in una società che ti accetta è un sollievo. Spesso le aziende non sono consapevoli di quanto un ambiente che non discrimina vada a beneficio dell’azienda stessa: chi vuole lasciare sé stesso a casa ed essere un personaggio diverso sul luogo di lavoro?».

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Per il suo impegno oltremanica con campagne aziendali a sostegno di attivisti come Gay is ok, nel 2015 è stato annoverato fra i futuri leader Lgbt dal Financial Times: «Per me fare coming out ha significato poter parlare liberamente, perché ho avuto il supporto dei miei cari. Ammetto, però, che, quando ero giovane, il panorama era molto diverso. Oggi i social media aiutano ad abbattere il sospetto per ciò che non si conosce. E ciò, unito alla fluidità della GenZ, ha cambiato la percezione delle persone».

 

In Italia, però, per una persona su tre fare coming out può voler dire essere discriminata sul luogo di lavoro. Lo certifica l’ultima indagine Istat-Unar sulle discriminazioni lavorative che ha stimato come, negli anni 2020-2021, una persona Lgbt su cinque abbia dichiarato di aver subito un’aggressione o di aver respirato un clima ostile al lavoro. Le più penalizzate sono le donne (21,5 per cento) rispetto agli uomini (20,5 per cento), ma a pagarne le conseguenze maggiori, anche fuori dall’ambito professionale, è chi non si riconosce nella dicotomia dei generi maschile e femminile.

 

Quantificare l’impatto delle discriminazioni in termini percentuali è riduttivo quanto circoscrivere le calunnie (46 per cento dei casi) o le umiliazioni verbali (43,9 per cento) a semplici epifenomeni, se poi inducono chi ne è vittima ad agire in consonanza con le aspettative di una società eteronormata: oltre il 68 per cento degli intervistati ha, infatti, dichiarato che ha evitato di tenersi per mano in pubblico con il proprio partner per paura di un’aggressione o una molestia, e più di una persona su due ha avuto il timore di esprimere il proprio orientamento sessuale.

 

In contesti come quello sportivo, fare coming out è ancora un’eccezione. Spesso manca il rispetto, come ha dimostrato di recente l’ex numero uno del Real Madrid, Iker Casillas, con il tweet canzonatorio «spero che mi rispettiate: sono gay», salvo poi cancellarlo e bollarlo come scherzo. Chi ha, invece, abbattuto muri, è l’azzurra Irma Testa, bronzo alle Olimpiadi di Tokyo 2020, prima medaglia nel pugilato femminile italiano. Ha stracciato il velo del silenzio, facendo coming out come lesbica: «Stiamo andando verso una direzione giusta, grazie anche a chi ha il coraggio di esporsi e raccontarsi. Lo sport, come ogni altro ambiente non è privo di diversità. E la diversità va mostrata. Soprattutto ai giovani».

 

Oggi Irma riconosce allo sport questo merito: «Il bello dello sport è che tutti, dagli allenatori alle compagne di squadra, hanno sempre appoggiato ogni mia scelta, senza giudizio né diffidenze. Anche in casa è stato semplice. Mia madre è stata esemplare: mi ha detto che era una mia scelta e che avrebbe continuato ad amarmi allo stesso modo. Per me è stato molto importante».

 

Ma spesso la realtà può picchiare forte come in un incontro di boxe. Almeno così è stato per Francesco Cicconetti, sui social “mehths”, noto attivista e divulgatore transgender: «Vorrei essere d’aiuto per chi vuole fare coming out con la propria famiglia, rispettando i propri tempi ». Anche se Francesco ha ottenuto il privilegio del passing – cioè la capacità di essere percepito dall’esterno come conforme al proprio genere d’elezione -, da «fiero ragazzo trans» avverte una forma di discriminazione in chi si stupisce: «Ancora oggi sento di dover fare a volte coming out. Ammettere di essere un ragazzo transgender mi fa sentire bene, non ho più paura. Ho capito che, oltre all’aspetto, importa mostrare quanto si è credibili». Eppure, per tante giovani persone transgender, fare coming out è ancora difficile: «Mi scrivono che hanno paura e, anche se ci stiamo prendendo sempre più spazi ed i miglioramenti negli ultimi anni sono visibili, la strada è ancora lunga».

 

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Secondo le recenti stime dell’Osservatorio giovani dell’Istituto Toniolo, soltanto il 10 per cento dei giovani italiani ha ammesso di non aver mai sentito l’espressione «identità non binaria». Eppure, malgrado la crescente sensibilità dei giovanissimi alla fluidità di genere, un coming out transgender non è recepito sempre in maniera positiva. Secondo un sondaggio YouGov, circa l’82 per cento degli italiani intervistati dichiara che sosterrebbe un figlio, fratello o parente stretto qualora facesse coming out come lesbica, gay o bisessuale, ma scende al 78 per cento chi farebbe lo stesso con un familiare transgender o non-binario: «Per molte persone transgender fare coming out significa liberarsi, dichiarando qualcosa a noi molto chiaro, eppure condizionato dalle sovrastrutture all’esterno», spiega l’attrice di teatro Marta Pizzigallo, che ricorda quando, lasciata la provincia di Taranto per gli studi di teatro a Bologna, ha deciso di prendersi cura di sé: «Il primo coming out è stato come scoperchiare il vaso. Poi ho compreso che dovevo farmi carico della mia sofferenza. Nella transizione si portano su di sé parti così manifeste che è importante farsene carico perché, quando ci si espone, si rischia di essere semplificati dallo sguardo altrui». È il fraintendimento in auge ancora oggi: pensare che dichiararsi equivalga solo a darsi un nome. Ma quasi sempre è essenziale quanto recidere un cordone ombelicale: separarsi da una vita altrui e imparare a vivere la propria, coi propri passi.