La bomba sull’infrastruttura simbolo e la reazione furiosa di Vladimir Putin hanno aperto un nuovo capitolo del conflitto. E i tempi si allungano

Il ministro degli esteri ucraino Dmytro Kuleba ha dichiarato dopo gli attacchi di lunedì che «bisogna smetterla di spostare le responsabilità, le esplosioni sul ponte di Crimea non hanno nulla a che vedere con i bombardamenti massicci alle principali città ucraine». Tuttavia, al netto del fatto che la guerra continua già da sette mesi e che il Cremlino non aveva certo bisogno di un pretesto per bombardare Kiev o Leopoli, è impossibile non considerare determinati eventi come una rottura netta con il periodo precedente.

 

Questi eventi, in molti casi, si caricano di quello che viene definito “valore simbolico” e diventano forieri di un cambiamento radicale. D’altronde, cos’è un simbolo? Difficile stabilirlo a priori, spesso ci si stupisce di quanto oggetti insignificanti assumano enorme importanza anche per gli individui più ordinari e di come questi portino avanti le azioni più insospettabili in nome di quell’ossessione. Altre volte, invece, l’ossessione di un singolo o di un gruppo si trasforma nella convinzione di interi popoli e si rientra nell’alveo della storia o della religione. Molte guerre sono state combattute per rubare o distruggere i simboli dei nemici, altre sono scoppiate solo per il desiderio di vendetta. Quando i nazisti occuparono Parigi nel 1940 obbligarono i francesi a firmare la resa nello stesso vagone ferroviario che era stato usato 22 anni prima per umiliare la Germania sconfitta nella Prima Guerra Mondiale. Quando l’Isis ha conquistato alcune regioni della Siria e dell’Iraq nel 2014, i suoi miliziani hanno distrutto monumenti antichissimi dichiarando che erano il simbolo della corruzione sulla Terra. In altri termini, quando il simbolo diventa il feticcio del capo, soprattutto nel caso dei regimi totalitari (o fortemente autoritari) è solo questione di tempo: non appena questi lo sentirà minacciato reagirà con tutta la violenza di cui è capace. Probabilmente allo stesso modo, quando le immagini del ponte di Crimea in fiamme sono apparse su Internet e hanno fatto in breve tempo il giro del mondo, per il presidente russo Vladimir Putin si è passato un segno. Le ragioni sono molteplici ma due aspetti in particolare vanno analizzati: il valore simbolico dell’infrastruttura e le conseguenze militari del suo danneggiamento.

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La Crimea è la “terra santa” della Russia, uno dei simboli dell’espansione a Occidente dell’impero zarista (insieme a Odessa) e, dopo la dissoluzione dell’Urss, era diventata il grande rimpianto di molti nazionalisti russi. Approfittando della situazione in Ucraina nel 2014, delle proteste contro il presidente Yanukovich, di fatti di cronaca come la cosiddetta “strage di Odessa” e della paura in alcune fette della popolazione russofona per i provvedimenti del nuovo governo ucraino, le forze speciali russe compirono un blitz nella penisola e in brevissimo tempo indissero un referendum (anche quello supervisionato dai militari). La conseguenza di tutto ciò fu la quasi immediata annessione della Crimea al territorio russo.

 

Si badi bene la netta differenza con le sorti delle due repubbliche separatiste del Donbass, lasciate dal Cremlino nel limbo per 8 anni. Ciò la dice lunga anche sull’opportunismo di certa retorica che vuole le azioni di Mosca come volte a «difendere» le cosiddette «minoranze filorusse d’Ucraina». A ogni modo, Putin dichiarò che quello che secondo lui era un torto storico, ovvero l’assegnazione della penisola alla Repubblica socialista sovietica d’Ucraina nel 1954 da parte di Krusciov, aveva finalmente trovato rimedio. Da quel momento gli investimenti sono stati massicci, la base di Sebastopoli (che per essere precisi era già in concessione ai russi prima del 2014) è stata ampliata ed è diventata il centro nevralgico della flotta del Mar Nero della marina russa. Si incoraggiavano i russi ad andare in villeggiatura sulle spiagge della penisola e gli esponenti più ricchi della classe media vi compravano case vacanza. Poi, nel 2015, Putin varò un piano colossale per la costruzione del più grande viadotto sospeso d’Europa: 19 km tra la provincia di Krasnodar nella Russia continentale e Kerch, in Crimea, passando per l’isola di Tuzla in mezzo allo stretto. Per realizzare l’infrastruttura furono spesi 228 miliardi di rubli (circa 3,8 mld di euro) e ci vollero solo tre anni. A inaugurare il ponte fu lo stesso Putin.

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C’è da aggiungere che l’Ucraina prima del 24 febbraio di quest’anno, aveva sempre tenuto un po’ in sordina le rivendicazioni sulla Crimea, (anche qui) a differenza di quanto si verificava con il Donbass. È vero che nel 2021 Zelensky aveva lanciato la “piattaforma Crimea” per tentare di risolvere diplomaticamente la questione e far convergere l’opinione pubblica internazionale a favore del suo Paese, ma il format non era sembrato portatore di chissà quale soluzione. Inoltre, prima dell’invasione russa e anche a guerra già iniziata, spesso si sentiva parlare di «ritorno ai confini precedenti al 24 febbraio», quindi con la Crimea sotto il controllo di Mosca. Dall’altro lato, quando il contesto militare si è rovesciato e Kiev ha lanciato la massiccia controffensiva nell’est, Putin ha ribadito più volte che lo status della penisola «non è e non sarà mai in discussione, la Crimea è russa per sempre». È evidente che alla luce delle dichiarazioni di Putin nel discorso del 21 settembre, in particolare riguardo alla «minaccia atomica», l’attacco al ponte della Crimea costituisce uno spartiacque. Tutti si chiedevano come avrebbe reagito il presidente russo a quello che senz’altro aveva percepito come un affronto personale, realizzato, per giunta, nel giorno del suo settantesimo compleanno.

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Il secondo piano è quello militare. Dal ponte sullo stretto di Kerch passavano i rifornimenti diretti ai fronti di Kherson e di Zaporizhzhia. In virtù degli sviluppi degli ultimi giorni sappiamo quanto questi rifornimenti siano essenziali per le truppe di Mosca impegnate nel sud dell’Ucraina. Sia per mantenere il controllo delle zone già occupate, sia per opporsi alla significativa avanzata delle truppe di Kiev che nell’ultima settimana si sono avvicinate di almeno 35 km a Kherson riuscendo a liberare posizioni importanti sulla riva ovest del fiume Dnipro. Tra l’altro, finora i soldati russi hanno pagato con la vita e la fatica la decisione del Cremlino di tenere la guerra a un livello circoscritto di impegno militare. Ma nelle ultime due settimane quest’impostazione che ha influenzato il conflitto fino all’autunno è stata abbandonata. Presto arriveranno truppe fresche, secondo molti analisti poco preparate e male armate, ma comunque si dovrebbe trattare di almeno 120 mila uomini. Inoltre, continua il repulisti in seno ai vertici dell’esercito, sia per quanto riguarda il comando sul campo, sia nelle posizioni apicali in patria. Il che, ancora una volta, si può interpretare come segno di debolezza ma anche come prova del fatto che siamo ben lungi dalla fine. Il nuovo comandante in capo del gruppo congiunto delle forze armate russe impegnate in Ucraina, il generale Sergej Surovikin, è conosciuto con il soprannome di «cannibale» e si è distinto per la totale assenza di scrupoli nelle operazioni militari in Siria.

 

Così gli attacchi che a inizio settimana hanno danneggiato seriamente le infrastrutture energetiche ucraine vanno interpretati in questo senso. Putin ha minacciato nuovamente Kiev, affermando apertamente che se quest’ultima «continuerà ad attaccare il territorio russo» la risposta di Mosca sarà «brutale». Ma non bisogna attendere per trovare i segni di questa brutalità: Leopoli, Kharkiv, Kryvyi Rih, Sumy, Odessa sono rimaste per ore senza corrente elettrica e interi quartieri non l’avranno nelle prossime settimane. Diversi centri strategici e logistici dell’esercito e dell’intelligence sono stati colpiti e molti civili sono rimasti uccisi. Gli analisti imputano questo cambio di strategia russo alla necessità di bilanciare le sconfitte sul campo, ma al di là delle previsioni sulle mosse future del Cremlino, ciò che tutti sperano è che si tratti solo di una risposta circoscritta, per quanto omicida, e che le distruzioni alle quali abbiamo assistito in questi giorni non diventino il modus operandi di una nuova fase della guerra, ancora più tragica della precedente.